Il racconto di Daniel Miulli
Avevo freddo. Era dicembre. Lo avvertivo forte sulla mia pelle in quel lontano 8 dicembre 2004.
Avevo 8 anni quando quel mercoledì mio padre mi guardò e mi disse un semplice: “Oggi ti porto allo stadio”. Quelle parole segnarono il sottile confine dal bambino al “teenager” che sarei diventato qualche anno più tardi. Quel giorno è come se ricevessi un secondo battesimo, quello che ti segna per tutta la vita, quello che ti rende figlio dello Zaccheria e che ti lega a quei colori, il rosso ed il nero. Quel giorno c’era Foggia-Napoli, partita valida per la 14esima giornata del campionato di Serie C1 2004/2005.
Casa dallo “Zac” dista poche centinaia di metri. Quando papà aprì il portone iniziai subito a vedere gente camminare a passo svelto, tutti volevano arrivare il prima possibile per non trovare la solita coda dinanzi alle porte. Ricordo gli ultras che già cantavano, perché quello non era e non sarà mai un semplice match. Lungo la strada ripetevo la formazione: “Marruocco, Galeotti, Pagliarulo, Tomei, Micco, Cimarelli, Moro, Stefani, Oliveira, Cellini e Mounard. Papà gioca Mounard? Sì?”. Era Mounard il mio idolo in quegli anni che sembravano essere l’inizio di una nuova luce. A spegnerli ci pensarono l’Avellino e quel maledetto Rivaldo qualche anno dopo.
Il campo dello Zaccheria era verde, quasi non ci credevo di essere lì. Ero sotto la tribuna centrale, quella che oggi per me è un po’ una seconda casa. Mio padre, veterano allo stadio, mi porta insieme a sé in direzione della linea di centrocampo e stringendomi la mano dice: “Da qui si vede meglio, che ne dici?”, io annuisco. Per me essere lì era già un sogno che si realizzava. La domenica, quando il mio babbo e mio fratello erano su quei gradoni, io restavo a casa. In tv c’era “Direttissima” con Attilio De Matteis.
Quel mercoledì, quel pazzo mercoledì, ero lì anche io.
Ricordo la stretta di mano, ricordo il fischio d’inizio del Sig. Velotto di Grosseto, ricordo l’ingresso degli ultras napoletani e i fischi dei foggiani. Capii da subito che quella partita era già storia, ma non avrei mai immaginato un giorno di raccontarla.
Lo speaker annuncia la formazione, c’è anche lui: David Mounard. Papà mi indica Gian Piero Ventura, all’epoca allenatore dei partenopei. Ventura diversi anni più tardi arrivò sulla panchina della Nazionale.
Quando l’arbitro fischia papà continua a parlarmi, ma io non lo ascolto. Sono su un altro mondo. Ci sono io e il Foggia, tutto il resto scompare. Al 17′ un cross dalla sinistra innesca un colpo di testa di Cellini che vale la rete. Passano dieci minuti e Cellini, di nuovo, incorna di testa. 2-0 a meno di 20 minuti, io guardo papà e sono sempre più contento di essere lì. I cori aumentano, sento il cemento tremare sotto i miei piedi, penso sia il terremoto, ma negli anni ho capito che quella è l’anima dello Zaccheria. L’anima si risveglia ogni volta che gioca il Foggia e ti fa battere il cuore più forte. Arriva fino alla gola, poi torna giù velocemente come una ascensore quando il Foggia fa gol.
Poco prima del termine dei primi 45′, Montesano accorcia le distanze. Mi arrabbio. Penso che il Foggia non possa più vincere.
Le due squadre tornano sul prato dello Zac e Cimarelli al 49′ prende palla, scappa centralmente, si sposta di poco sulla destra e con una sassata dalla lunga distanza trafigge l’estremo difensore azzurro: è 3-1. Ventura impazzisce, è furioso con i suoi. Le urla dell’allenatore dei campani è impossibile udirle, lo stadio è una bolgia, i circa 9.000 tifosi presenti scatenano l’inferno. Fu in quel momento che capii cosa fosse “l’inferno rossonero”. Eccolo, è questo. Perdere la voce per gioire ad un gol della tua squadra, perderla ancor di più quando batti un’acerrima rivale o quando vinci al 90°.
L’ultima gioia me la diede proprio lui: David Mounard. Al 75′ una palla mal gestita dalla difesa del Napoli invita Mounard a colpire dai 25/30 metri con un destro secco, un tiro imparabile che regala il 4-1 ai rossoneri. La partita finisce lì. Finisce quando do il cinque a mio padre. Finisce quando l’arbitro fischia e noi siamo gli ultimi ad uscire. Voglio vedere i fumogeni rossi consumarsi in gradinata, voglio vedere il saluto della squadra agli ultrà, voglio sentire i cori, voglio vedere i tifosi del Napoli abbandonare lo stadio con il sapore amaro della sconfitta in bocca. Voglio respirare quel profumo d’erbetta bagnata che diventa l’essenza perfetta non appena oltrepassi i varchi d’accesso all’impianto.
Fu quel giorno che diventai un satanello. Fu quel giorno che la mia pelle si sporcò di rossonero. Fu quel giorno che l’antica profezia venne compiuta: “Di padre in figlio”.
Il Foggia è esattamente questo, una tradizione, un momento che unisce padri, madri e figli. Il Foggia è un aspetto puramente etnologico che segna la nostra cultura. Una sfumatura della nostra storia. Una parentesi che delinea il nostro essere foggiani, perché dove c’è un foggiano, lì c’è Foggia. Io quella vittoria non la dimenticherò mai, come non dimenticherò la tradizione che mi è stata tramandata da mio padre.
Forza Foggia, sempre.
di Daniel Miulli