È di queste ore la notizia della morte di Michail Sergeevič Gorbačëv (semplicemente Gorbaciov per noi occidentali), l’uomo che più di tutti ha chiuso il novecento, le sue contraddizioni, le sue tragedie, le sue divisioni in blocchi, cambiando gli equilibri politici sulla terra dopo quasi un secolo di storia, qualcosa che prima del suo avvento sembrava semplicemente “fantascienza”.
Quello che il mondo non gli ha riconosciuto in vita, soprattutto i suoi concittadini, si spera gli sarà riconosciuto in morte.
L’ultimo Presidente dell’URSS è stato un gigante della storia, che nonostante il riconoscimento (mai così meritato) del Nobel per la pace, rimane fra i più sottovalutati che si ricordi. Un uomo che ha sognato la pace e la prosperità per il suo popolo, chiudendo la lunga parentesi della guerra fredda, provando a fermare la corsa al nucleare e lanciando una nuova politica democratica basata sulla Glasnost (trasparenza) e sulla Perestrojka (riforma), senza per questo rinunciare agli ideali socialisti in cui aveva sempre creduto.
E qui sta tutta la contraddizione della sua politica interna, contraddizione che ne indebolì il potere e il consenso sia nel Politburo, fra i suoi nemici di partito (Boris Eltsin in testa), che fra la gente comune, che non capì che tale rivoluzione non avrebbe potuto riportare in un mese a riempirsi gli scaffali vuoti dei negozi e dei grandi magazzini di merce di prima necessità, che poi era solo la parte emersa dell’iceberg del disagio frutto del fallimento dell’Economia di Piano ormai conclamata da decenni (addirittura già provata a correggere dallo stesso Lenin con la politica post-bellica della NEP, poi rinnegata da Stalin).
La grandezza e l’eroismo di Gorbaciov sta semplicemente nel fatto che avrebbe potuto conservare a vita l’immenso potere e i privilegi del Segretario Generale del PCUS, semplicemente continuando l’immobilismo della stagnazione dei suoi predecessori Brežnev, Andropov e Černenko, lasciando in una situazione ormai insostenibile le condizioni sociali dei popoli non solo dell’URSS, ma di tutto il Patto di Varsavia.
Invece ha sfidato la storia e ci ha provato, ben sapendo cosa avrebbe rischiato. Non ci è riuscito, almeno come avrebbe voluto lui, non è stato capito e supportato proprio da quei popoli che, comunque la si pensi, ha liberato dalla dittatura dei satrapi immarcescibili del partito unico.
Alla fine tutto si è ridotto alla dissoluzione dell’esperienza dei Soviet, alla corsa all’indipendentismo delle ex Repubbliche Sovietiche, alla ricerca di un liberismo e di una democrazia immediata, arrivata all’improvviso senza filtri e spesso degenerata in dittature forse peggiori, cominciando proprio dalla stessa Russia, governata da più di vent’anni da un solo uomo al comando.
Il suo fallimento (ma è stato un fallimento?) non è stato perdonato, come sempre la storia non perdona i vinti. A trent’anni dalla fine dell’URSS, ancora oggi in Russia lo si accusa addirittura di aver distrutto l’Unione Sovietica, quello Stato che Regan definì “l’Impero del Male”, uno Stato che spendeva la stragrande maggioranza delle risorse nelle spese strategiche, militari e nucleari, affamando la sua gente. Che aveva abolito libertà di stampa, di associazione, di libertà di opinione, di manifestazione. Che aveva sistematicamente eliminato a milioni nemici e dissidenti interni, diffondendo la politica del terrore e della delazione e riducendo a sudditi, esattamente come ai tempi degli Zar, quei popoli che la Rivoluzione del 1917 avrebbe voluto emancipare nella democrazia del proletariato.
La sua Russia, quella che sognava, non esiste più. La pace a cui anelava è lontana, la democrazia che chi gli è succeduto s’illudeva di conquistare salendo teatralmente su un carro armato, arringando la folla, è poi naufragata nell’assolutismo putiniano. Le spese militari e nucleari sono rimaste le solite, se non addirittura aumentate, come l’anelito imperialista della seconda potenza militare mondiale che ha, di fatto, riportato le lancette del tempo indietro di più di cinquant’anni, riesumando la pericolosissima contrapposizione e incomprensione con gli Stati delle democrazie occidentali.
Gorbaciov sapeva che un gigante come l’Unione Sovietica avrebbe avuto bisogno di piccoli e ponderati passi per cambiare strada, non gli è stato dato il tempo e la possibilità, e i risultati di questa fretta di cambiare sono triste cronaca quotidiana, ne paghiamo le spese proprio in questi mesi, e sono sotto gli occhi di tutti.