“Le fotografie sono la nostra memoria nel tempo, quando i nostri ricordi iniziano a perdersi nel tempo che passa.”
Ho letto questa frase della scrittrice canadese di origini friulane Silvana Stremiz e mi è sembrata assolutamente adeguata come incipit a questo articolo che inizialmente avevo immaginato quasi “muto” lasciando spazio alle vostre (nostre) emozioni e considerazioni che le immagini che pubblico di seguito sapranno suscitare.
Settantacinque anni fa il mondo prese coscienza delle atrocità perpetrate dai nazisti ai danni di ebrei in maggior numero ma anche rom, cinti, omosessuali, oppositori politici, disabili proprio grazie alle prime immagini fotografiche scattate dalle forze di liberazione sovietiche e alleate con cui documentarono le nefandezze compiute nei campi di concentramento, l’opinione pubblica e i governi del mondo non potevano più fingere di non sapere e fu come ricevere un pugno nello stomaco.
Lo stesso pugno nello stomaco forte e diretto che ti fa piegare per il dolore e vomitare per ciò che vedi quando ti scorrono davanti agli occhi le immagini dei campi profughi documentate in alcuni ottimi reportage trasmessi in televisione – TV7 della RAI e Piazza Pulita su la 7 – e pubblicati sulla carta stampata e on line in questi giorni – “I dimenticati di Lipa” di Annalisa Camilli su Internazionale 12 gennaio 2021, “La violenza invisibile dei campi profughi d’Europa” di Marianna Karakoulaki giornalista di Aljazeera riportato su meltinpot.org – per citarne alcuni. Vengono descritte le disumane condizioni di vita (meglio dire di sopravvivenza) a cui sono costretti migliaia di profughi e migranti ammassati nei campi predisposti ai confini dell’Europa – Turchia, Libia, Bosnia, etc. – allo scopo di limitarne l’ingresso nei confini della UE ed anche all’interno del nostro Continente – ad esempio Moria sull’isola greca di Lesbo.
Non si tratta di luoghi lontani da noi, Lipa è a poco più di cento chilometri da Trieste e a Lesbo i turisti anche italiani stazionano in vacanza a poche centinaia di metri dalle baracche del campo profughi, e se anche lo fossero le immagini, le foto e i racconti riportati non possono farci trovare alibi a riguardo. Per quanto riguarda l’Italia, guardate il docufilm “The Milky way” di Luigi D’Alife che racconta cosa accade ogni giorno, anzi ogni sera, sulle Alpi occidentali tra Italia e Francia sulle montagne tra Clavière e Monginevro che la mattina sono attraversate da migliaia di sciatori in vacanza sulla neve nel comprensorio sciistico “La Via Lattea” e di notte, sono percorse di nascosto tra i boschi da decine di migranti che cercano di lasciare l’Italia per proseguire il loro viaggio verso la Francia.
Verrebbe da dire, come nel gioco enigmistico “Trova le differenze”, che non c’è nulla di diverso tra le immagini del 45 e quelle di oggi. Queste persone sono spesso diventate merce di scambio a livello politico come insegnano le ripetute minacce turche e libiche – ma non solo – di allentare i controlli alle frontiere e di consentire il flusso dei migranti verso l’Europa in cambio di ricchi esborsi economici da parte della UE. Ci siamo inventati termini e status diversi – profugo, richiedente asilo, migrante economico, migrante ambientale, etc.– per definire chi semplicemente scappa da situazioni di assoluta povertà e cerca condizioni di vita un po’ migliori per sé e per i propri figli e invece si ritrovano ammassati nei campi che abbiamo loro predisposto impossibilitati a proseguire nel proprio viaggio e spesso anche a tornare indietro.
So già che alcuni leggendo queste righe diranno “eccone un altro, il solito buonista di turno, prendili tu, mica possiamo farli entrare tutti”.
Le annoto tutte queste osservazioni, non preoccupatevi e sarà mia cura rispondere puntualmente nei prossimi articoli, ma non oggi, non in queste righe.
Oggi c’e’ solo da vedere le foto e meditare su quanto sia corta e opportunistica la nostra memoria.
Il campo profughi di Moira, isola di Lesbo Grecia: foto Swiss