L’Organizzazione Mondiale della Sanità nella Dichiarazione di Helsinki (1964) ha affermato che “Non c’è salute, senza salute mentale”. In Italia i dati rilevati dal Sistema Informativo Salute Mentale del Ministero, purtroppo aggiornati al 2017, indicavano in oltre 850mila le “persone con patologie psichiatriche” assistite dai servizi specialistici. Tra le diagnosi più frequenti: depressione, schizofrenia, sindromi nevrotiche e somatoformi, nel 53,5% dei casi si trattava di donne e oltre 170mila ragazzi in età scolare in Italia (dati riferiti all’anno scolastico 2016/2017) presentavano una disabilità di tipo intellettivo.
La pandemia da COVID-19 ha avuto e continua ad avere conseguenze drammatiche su tutta la popolazione, costretta ormai da più di un anno a restrizioni, stati d’ansia, preoccupazione e paura inusuali e ha ulteriormente aggravato il quadro clinico di quanti già sperimentavano una esperienza, più o meno grave, di disturbo mentale.
Abbiamo affrontato questo delicato ed importante tema che riguarda la vita di moltissime persone e famiglie con il dott. Vincenzo Sica che lavora presso il Centro di Salute Mentale ASL di Foggia e che abbina le sue competenze di Medico Chirurgo a quelle di Psicoterapeuta
Dott. Sica in quale modo la pandemia ha influenzato lo stato di benessere mentale della popolazione che si è trovata ad affrontare questa inaspettata emergenza sanitaria?
La pandemia ha colpito gravemente il bisogno di relazioni che per l’essere umano è un bisogno fondamentale, potente e pervasivo che crea un contesto all’interno del quale i soggetti modulano la propria autostima. Le conseguenze sono da individuare in un vissuto di delusione e di frustrazione che ha sicuramente generato ansia e depressione del tono dell’umore in tutte le persone che hanno vissuto e stanno vivendo questo clima.
Un recente studio pilota condotto in Italia dal Dipartimento di Scienze Biomediche di Humanitas University, ha riscontrato, su un campione di 2400 persone, l’impatto negativo costante di covid-19 sulla salute mentale, con il 16-18% dei partecipanti che ha mostrato sintomi di ansia e depressione; i più esposti sarebbero le donne, i giovani, chi soffre di disturbi del sonno, chi aveva uno stato di salute già precario o chi ha parenti con covid-19; i pazienti con disturbi psichiatrici preesistenti hanno riferito di un peggioramento dei sintomi (Caldirola e Perna, 2021). Come commenta questi dati?
Non ho partecipato a questo studio ma i dati che emergono sono sicuramente in linea con la mia esperienza clinica sul campo. Ho visto aumentare i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore e ho potuto constatare un significativo aumento di comportamenti disfunzionali e disadattivi che sono quelli tipici delle dipendenze patologiche dell’adattamento, con o senza sostanze – uso inadeguato di alcolici, eccessiva alimentazione, eccessivo tempo trascorso su internet, etc. Ho riscontrato un aumento di pensiero rimuginativo nelle persone. Il pensiero rimuginativo è quel servomeccanismo che scatta automaticamente quando siamo a contatto con una minaccia persistente e comporta uno spostamento del focus della coscienza sul pericolo, con una riduzione di tutte le altre attività cognitive rivolte ad altre aree del funzionamento. Questo avviene perché più pensiamo ad un pericolo più cerchiamo soluzioni per poterlo gestire. Ci sono però situazioni come nel caso del Covid 19, per le quali questo meccanismo non funziona, nel senso che pensare costantemente a questa minaccia non serve a trovare soluzioni al problema e questo genera il vissuto di frustrazione che la pandemia ha provocato in ognuno di noi. Nonostante tutte le precauzioni adottate, nessuno mai ha potuto assicurarci che non saremmo stati infettati dal virus e quindi continuare a mantenere il focus della coscienza su questo pericolo si è rivelato sicuramente utile per le precauzioni che abbiamo adottato e che sono servite a salvare tante vite umane, ma al tempo stesso non ci sollevati dal confronto con questa micidiale pandemia e il perdurare di questa situazione ha ulteriormente aggravato e amplificato il senso di frustrazione. Altra conseguenza del pensiero rimuginativo è la determinazione nell’organismo di uno stato di allarme cronico e di uno stato di affaticamento. Molti pazienti hanno infatti lamentato una facile stancabilità, un senso di fatica costante, il sentirsi sempre sul filo del rasoio. Uno stato cronico di allarme comporta dei pattern bioumorali che corrispondono a tutta una serie di strutture nervose che rimangono attivate durante l’arco dell’intera giornata e anche della nottata, con una serie di molecole di allarme che entrano in circolo. Quando scatta un set di allarme tutto l’organismo è orientato biologicamente verso una reazione di attacco o di fuga e questo comporta uno squilibrio all’interno del sistema psico-neuro-endocrino-immunologico, con tutta una serie di alterazioni possibili sia dal punto di vista endocrinologico che immunitario.
Nella mia esperienza clinica ho riscontrato, in questo periodo, l’incremento di tutta una serie di problematiche di tipo psicosomatico e, molto frequenti, di disturbi del sonno, con difficoltà ad iniziare il riposo e a mantenerlo. Ho notato l’aumento di incubi terrifici anche in soggetti dalla personalità permorbosa indenne a testimonianza del fatto che siamo terrorizzati dal poterci trovare in contesti in cui altri ci infettano o in una corsia di ospedale intubati a causa della polmonite da Covid. Altre patologie riscontrate in aumento in questo anno sono state le alterazioni cardio-circolatorie – aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, sudorazione eccessiva, tremore – anche in soggetti che non avevamo mai palesato questi disturbi in precedenza, inoltre, turbe psicosomatiche a carico dell’apparato digerente e della cute – dermatiti, eczemi e manifestazioni cutanee di vario tipo.
I giovani come hanno reagito a questa situazione di pandemia?
Indubbiamente la categoria dei giovani è stata quella maggiormente toccata dagli effetti del lungo lockdown. La quotidianità dei nostri ragazzi è caratterizzata da contesti relazionali, scolastici, lavorativi, ricreativi, da attività sportive che sono venute completamente a mancare. Inoltre la pandemia ha messo in discussione il nostro e il loro futuro: sono bloccate le attività didattiche ad ogni livello, quelle lavorative, i concorsi, è come se la pandemia ci avesse detto “non potete fare progetti” e ancora adesso non possiamo organizzare una vacanza, un viaggio anche a medio o a lungo termine. Quando un essere umano, soprattutto un giovane, non può pensare al futuro ed è costretto a vivere alla giornata, la motivazione che lo anima non è più progettuale, diventa stagnante e si attivano meccanismi di ricerca di attività di evasione. In tutte le persone, e quindi anche nei giovani abbiamo riscontrato l’aumento di comportamenti disfunzionali e disadattivi che sono quelli tipici delle dipendenze patologiche, con un aumento della ricerca di gratificazione, con uso di sostanze, con l’aumento di uso di alcolici o di un maggior ricorso al cibo ma anche di contesti senza uso di sostanze, ad esempio un aumentato numero di ore trascorse al computer e su internet.
Per i pazienti già in trattamento come ha inciso la pandemia?
I centri diurni e le comunità hanno continuato a funzionare seppur con le difficoltà dei protocolli previsti (tamponi, distanziamento, mascherine, etc.) ma alcune esperienze riabilitative svolte da cooperative private sono state interrotte. Questo ovviamente ha avuto una ricaduta oltremodo negativa sui pazienti che avevano già da tempo intrapreso questo tipo di percorso. Una considerazione interessante, perché in controtendenza, riguarda i soggetti psicotici, gli schizofrenici che abbiamo in trattamento. Questi pazienti sono quelli che forse hanno risentito meno di tutta questa situazione, perché l’isolamento ha per loro, un significato anche protettivo. Pazienti con questo tipo di patologie già inseriti in un percorso riabilitativo, manifestano grandi difficoltà ad avere forme di socializzazione e a ricreare normali contatti con gli altri. Sono persone che hanno paura, vittime di uno stigma della società ma al tempo stesso di un auto-stigma, di un pregiudizio su di sé che li conduce all’isolamento ed è questa la dimensione in cui si sentono più protetti.
Un’ultima considerazione che le chiedo, riguarda eventuali variazioni delle dinamiche interne ai contesti familiari e se può esserci una relazione tra la pandemia e i recenti casi anche violenti che si sono registrati in ambito domestico in questo periodo.Sicuramente ho avuto modo di riscontrare nei miei pazienti un aumento dell’emotività espressa in famiglia, nel senso che molte persone vedono aumentata la conflittualità determinata da una condivisione forzata degli spazi in cui vivono e quindi sono costrette a doversi assoggettare alle abitudini dell’altro. Una situazione che a lungo andare determina un aumento di conflittualità all’interno del nucleo familiare che può raggiungere anche punte estreme e violente in personalità più fragili e patologiche.