Nell’era del “salvinismo” fermarsi a riflettere dopo la morte di sedici braccianti agricoli sulle nostre strade, nella nostra terra, tutti giovani, tutti neri, tutti sfruttati e maltrattati risulterà sicuramente impopolare e anch’io saró tacciato d’essere un “radical chic” con la maglietta rossa. A farlo su un giornale sportivo poi si rischia di cadere addirittura in un patetico opportunismo manierista, ma tacere mi è davvero impossibile e correró questo rischio.
Tutti oggi, in verità, dovremmo prenderci una pausa di riflessione per ascoltarci dentro e capire dove sono andati a nascondere i nostri valori, l’ umanità, il calore e l’accoglienza disinteressata della nostra gente. Quando ero un ragazzo, ormai troppo tempo fa, e i “negri” li avevamo visti solo in tv o immaginati tra le pagine di un libro di Harriet Beecher Stowe, a scuola le maestre ci insegnavano che il “razzismo” era il grande peccato del quale si era macchiata l’America buona del vecchio e saggio Spencer Tracy di “Indovina chi viene a cena” o del giovane e coraggioso Gregory Pec de “Il buio oltre la siepe”. Gli eroi di allora erano Martin Luter King ed il popolo del Lincoln Memorial a Washington nella tarda estate del 1963, i cattivi erano gli incappucciati del Ku Klux Klan con le loro sinistre croci incendiate in Alabama. Persino quando, bambino, chiedevo a mia madre perchè avessero assassinato i fratelli Kennedy mi sentivo rispondere con un perentorio: <Perchè stavano dalla parte dei neri!> Non era vero, ma ci piaceva crederlo perchè gli eroi muoiono sempre per una causa giusta. Grazie a “Soldier Blue” di Ralph Nelson e di una straordinaria Candice Bergen avevamo scoperto, nel dramma del Sand Creek, che i cattivi alla fine non erano gli indiani, ma il settimo cavalleggeri di Ford e John Wayne, e la disastrosa e squallida fuga da Saigon dei Marines di Nixon e Kissinger ci aveva trovati tutti dalla parte di Ho Chi Minh e dei suoi vietcong. Di lì a poco avrebbe furoreggiato nelle domeniche in tv lo sceneggiato “Radici”, dal romanzo di Alex Haley. Tutta Italia avrebbe corso al fianco di Kunta Kinte, il quindicenne nero principe ereditario del suo villaggio, mentre cerca di sfuggire ai negrieri bianchi e occidentali correndo tra le foreste e la spiaggia nel golfo della Guinea. Tutti avrebbero odiato i suoi padroni, i suoi aguzzini, tutti avrebbero provato orrore mentre gli mozzano un piede per non farlo scappare, tutti si sarebbero commossi alle lacrime mentre gli strappano per sempre l’amatissima figlioletta Kizzy dalle braccia, e tutti, ma proprio tutti, avrebbero esultato quando suo nipote “Gallo George” riesce a tornare con l’astuzia e il coraggio un uomo di nuovo libero! Poi arriverà nelle sale “Mississippi Borning” di Alan Parker. La vera storia di tre ragazzi impegnati per i diritti civili degli afroamericani in USA uccisi e occultati dal Ku Klux Klan a Jessup, nelle campagne della “deep America” del presidente Johnson e di J. E. Hoover. A chi non ha riso lo stomaco quando l’agente FBI (magistralmente interpretrato da Gene Hackman) fa “assaggiare” la corda insaponata a uno degli assassini bianchi della setta, o mentre “sbatte” a dovere il subdolo vice-sceriffo Pell, razzista fino al midollo? Davvero a nessuno, aggiungo io. Per non dire poi dello schifo che ci ha fatto l’apartheid di Verwoerd nella Republic of South Africa. Avremmo fatto salire tutti i neri del mondo sul nostro autobus e li avremmo fatti sedere tutti accanto a noi nei banchi delle nostre scuole. La verità è che siamo stati dalla parte dei neri fino a quando non ne abbiamo visto la faccia e sentito l’odore con l’avvento della globalizzazione, le crisi quartomondiste e le primavere arabe del terzo millennio. Dapprima li abbiamo accolti con simpatia e curiosità, poi con stupore e sospetto, infine, a seguito di veri e propri esodi non controllati, con preoccupazione ed un fastidio crescente. Non è un caso che se il “Radici” del 1977 aveva tenuti incollati al divano quasi trenta milioni di nostri connazionali, la sua riedizione del 2016 non ha lasciato praticamente traccia nell’auditel. Il nero è diventato un nemico, l’uomo che ci ruba i diritti, la casa, la sanità, persino il lavoro. Quello che spaccia e stupra, quello delle “vacanze pagate” in attesa del diritto d’asilo. Quello a cui adesso bisogna togliere tutto ma che i più scaltri peró continuano a sfruttare nel bene e soprattutto nel male, e i più scaltri sono sempre bianchi. E bianchi sono i caporali che a Foggia (e non solo a Foggia) li conducono al massacro nei campi per due lire non solo umiliati e spogliati dei diritti, ma anche della dignità. Così ieri sono morti dodici ragazzi sulle stesse strade che percorse Giuseppe Di Vittorio per difendere i “suoi” braccianti. E così sono morti in quattro l’altro ieri ancora sulle stesse strade. Per loro la “pacchia” è finita per sempre, chiusi come sardine in una scatola, in quindici in un furgone da nove posti, senza la più misera tutela, merce da portare ai padroni che sanno fin troppo bene a chi e come viene affidato il lavoro nei loro ricchi poderi. Ricchi sì, ma solo per loro. Domani quei corpi senza nome aspetteranno la visita di chi su quelle vite doveva vigilare perchè erano anche loro dei cittadini, uomini come noi, magari meno uguali perchè il sangue di un nero non è mai abbastanza rosso. Lavoratori, si badi bene, non clandestini, e quando le autorità saranno andate via, quando il vento porterà via i loro bei discorsi, tra i filari delle viti o negli uliveti a San Severo come a Cerignola rimarrà la solita disperazione. Ma chi è oggi Kunta Kinte e chi sono gli aguzzini, i negrieri? Ma che fine hanno fatto i buoni sentimenti, i buoni propositi, la commozione di allora? Si è davvero persa così, tra la confusione degli sbarchi e dei gommoni a Lampedusa? È vero. In Italia non c’è posto per tutti. Probabilmente di posti a tavola ne abbiamo aggiunti troppi e non abbiamo più un pasto da dividere. Ma a chi mangia ormai al nostro tavolo non puó essere servito il fiele della cattiveria gratuita, dell’ingiustizia, della sopraffazione, della legge del più forte. Criticavamo gli americani, ma noi siamo davvero migliori di quello che erano loro? Le piantagioni di cotone non sono poi così lontane dai campi di pomodori se per sopravvivere sotto la soglia di povertà degli esseri umani devono essere caricati come bestiame in un carro e portati a sudare sotto un sole agguerrito per un pugno di pochi e maledetti euro. Domandiamocelo soprattutto noi ragazzi di allora, noi che ci indignavamo davanti ad una frusta, un sinistro cappuccio e un nodo scorsoio per l’ennesimo linciaggio in Louisiana. Domandiamolo ai nostri figli ai quali, forse, non abbiamo saputo inculcare il dono della tolleranza e diamoci tutti una risposta, perchè solo cambiando le nostre coscienze potremo cambiare noi, ma cambiare anche il mondo che ci circonda per non vedere più rosseggiare l’asfalto delle nostre strade del sangue di povera gente che a noi chiedeva solo di vivere e che invece abbiamo lasciato morire.
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Francesco BacchieriFrancesco Bacchieri, all’anagrafe Stellacci, laureato in architettura a Firenze, vive ed esercita la professione di architetto in Toscana ormai da 35 anni, da dove però non ha mai mancato di seguire i Satanelli in giro per l’Italia. Da oltre un anno, come Francesco da Prato, a fine partita commenta a caldo le prestazioni dei rossoneri nella rubrica "Io la vedo così... ". Archivi
Maggio 2020
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