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Quella sottile linea rossa

28/3/2019

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Il 29 maggio del 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, il mondo del calcio conobbe una tragedia che costò la vita a 39 persone e che giustificò un brusco giro di vite in tutta Europa contro ogni forma di violenza a margine degli spettacoli sportivi in generale e del calcio in particolare. La tragedia colpì l’opinione pubblica nel profondo e così, sin con la legge 401 del 1989, passando per la legge Amato del 2007, e via via fino all’approvazione del celeberrimo Decreto Legge 187 del 2010 (conosciuto meglio come “Decreto Maroni”), è stato tutto un susseguirsi di decreti a variazione, emendamenti, integrazioni, leggi e leggine in materia di sicurezza ed ordine pubblico negli stadi, scandite - secondo le migliori abitudini italiane - non già da una precisa politica di prevenzione prima e contrasto poi alla violenza, ma dettate unicamente dalla necessità dei governanti di turno di dare risposte immediate all’opinione pubblica in seguito a singoli episodi luttuosi direttamente o indirettamente legati al tifo organizzato. Si sa che l’Italia è il Paese delle leggi “per necessità di cronaca”, laddove primeggiamo al Mondo per numero di norme in quanto, piuttosto che legiferare partendo dai capisaldi del vivere comune, si emanano direttive “isteriche” legate ad eventi più o meno criminali, sulla base della loro eco massmediatica. Dunque in Italia non esiste una legge che tuteli le donne, i minori, o l’ambiente e così via, sulla base del principio che è giusto punire chi prevarica, violenta o uccide una donna, violenta o rapisce un bambino, inquina o deturpa il paesaggio, ma esistono una innumerevole serie di norme e decreti, a modifica dei precedenti, che si incatenano uno sull’altro, inasprendosi conseguentemente all’ultimo caso di femminicidio, piuttosto che all’ultimo eclatante episodio di pedofilia o alla più recente scoperta dell’ennesima discarica abusiva nella terra dei fuochi. Il risultato è che in questo caos legislativo da ultimo, non a caso, finisce per prevalere il detto latino “Summum ius, summa iniuria”, dove le vittime finiscono per essere proprio gli stessi cittadini assieme alla sempre più derelitta giustizia italiana. Nel convivere civile troppe regole, o troppo complicate, sono difficili sia da rispettare che da far rispettare. In questo senso le norme a cui mi riferivo all’inizio sono paradigmatiche di questa situazione tutta italiana. Ad ogni tifoso morto o ferito, ad ogni celerino colpito, ad ogni disordine scaturito dentro o fuori dal campo, soprattutto in concomitanza di partite riguardanti club metropolitani, si sono succedute direttive sempre più stringenti e pene sempre più dure e repressive, spesso senza logica e proporzione. Perdonatemi l’ardire, ma il diritto è un’altra cosa. Basterebbe seguire la lezione di Newton, secondo il quale in natura ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, per trovare il bandolo della matassa, piuttosto che rendere la reazione innaturalmente abnorme rispetto all’azione, cosa di fatto inaccettabile in un consesso civile. Ad ogni comportamento criminale, dunque illegittimo, data per scontata la univocità della norma infranta (cosa che in Italia risulta spesso quasi un’impresa), deve corrispondere una punizione “adeguata” (non certo suggerita dal clamore della notizia di cronaca), ma soprattutto “educativa”, come suggerisce (per non dire ordina) l’art. 27 della Costituzione al comma 3. Non solo, è sempre la Costituzione che, preferendo la prevenzione del reato alla sua persecuzione, esclude che la pena debba essere in tutti i casi afflittiva (per non dire iniqua), tendendo sempre alla volontà di educare, attraverso la giusta pena o la giusta sanzione, dunque a prevenire piuttosto che reprimere la commissione di un reato. Purtroppo il clamore che l’evento calcistico suscita nel nostro Paese ha, di fatto, esasperato la tendenza a legiferare d’impulso piuttosto che di raziocinio, a tal punto che non solo gli ultras, ma esimi giuristi, hanno più volte intravisto aspetti di incostituzionalità in molte delle norme tendenti appunto solo a punire, a vietare, piuttosto che ad educare, in materia di contrasto alla violenza. Intanto con l’introduzione del provvedimento del DASPO (inibizione temporale ad assistere ad avvenimenti sportivi o a spettacoli pubblici in generale) si è passati tranquillamente sopra l’art. 16 della Carta Costituzionale che garantisce la libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini italiani essendo evidente che, qualora al provvedimento sanzionatorio si accompagni l’obbligo di firma in caserma in occasione dell’evento sportivo o pubblico, questa libera circolazione è di fatto inibita. Poi c’è la palese violazione dell’art. 19 che garantisce la libertà di espressione e di opinione. Senza andare troppo lontano, a Chiavari, a noi tifosi del Foggia ci è stato impedito di esporre sulle tribune uno striscione che esprimeva l’opinione che “non ci avrebbero piegato mai”, opinione che, di contro, non infrangeva alcuna norma, non ledeva la libertà o la dignità altrui e soprattutto non inneggiava o istigava alla violenza. Poi ci sono tutta una serie di comportamenti da parte di chi è preposto a garantire l’ordine pubblico che lasciano quanto meno perplessi e che se forse non infrangono i diritti costituzionali garantiti, di sicuro infrangono leggi ordinarie in materia di privacy, come la Legge 675 del 1996 e i suoi successivi aggiornamenti. L’uso e la consuetudine, in alcune circostanze, di fotografare insieme alla propria carta d’identità chiunque assista ad un evento calcistico in quanto parte della tifoseria ospite, come fosse un delinquente qualsiasi colto in flagranza di reato, a mio avviso è censurabile, soprattutto se poi si è da tempo immemore introdotto l’obbligo di ingresso muniti di titolo nominativo e documento di riconoscimento alla mano e di tessera del tifoso (allora quante volte bisogna essere identificati?) Abitudine consolidata non solo in conseguenza di un evento delittuoso, ma anche in forma preventiva, come successo a noi a Cosenza in un piazzale alla periferia della città, prima ancora di arrivare nei pressi del San Vito. Per tacere poi delle ripetute e quasi vessatorie perquisizioni prima, durante e dopo l’ingresso ai tornelli da parte non solo di agenti di pubblica sicurezza, ma anche degli stewards, personaggi investiti dalle norme attualmente in vigore di un potere che, obiettivamente, esubera le competenze di chi non può avere la maturità, il controllo, la preparazione culturale e l’addestramento equiparabili ad un pubblico ufficiale. Non nel XXI secolo, ma nel ‘700, Cesare Beccaria sosteneva che “Ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico” e che per prevenire i delitti bisogna fare leggi chiare e semplici, dunque comprensibili da tutti. Ma Beccaria andava molto oltre quando all’articolo 41 del suo “DEI DELITTI E DELLE PENE”, in materia di prevenzione dei reati, affermava che “Il proibire una serie di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi”. Tutto questo prologo per dire che per regolamentare il tifo negli stadi e ridurre, se non eliminare, ogni forma di violenza e di malcostume, il legislatore ha fatto tutto il contrario di quello che non solo il celeberrimo illuminista milanese andava pontificando tre secoli fa, ma che persino il buonsenso avrebbe suggerito, impaludandosi in un caos legislativo dal quale anche un laureato in legge farebbe fatica a districarsi. Il fallimento di questa politica caotica e pruriginosamente repressiva sta nei fatti e nelle cronache più recenti, dove continuano a contarsi morti e feriti e dove la diminuzione dei casi di violenza non è certo imputabile alle leggi e all’educazione, ma piuttosto ai divieti e al sempre maggiore uso (ed abuso) di forze di polizia che costano denaro al contribuente e che sono distolte da compiti più generali di ordine pubblico. In poche parole uno Stato che non riesce ad educare i propri cittadini, ma che deve ricorrere alla repressione o ai divieti  “sic et simpliciter” per evitare comportamenti delittuosi di chi assiste ad una partita di calcio, ha fallito il suo compito, anzi, al contrario, ha peggiorato la situazione. Sembra quasi per assurdo (ma non troppo) che il fine ultimo sia quello di inibire l’accesso agli stadi a chi vive la partita con la passione del tifoso, i cori, i colori, la rivalità di campanile, le coreografie, l’organizzazione delle trasferte. In sintesi si vorrebbe cambiare di connotazione il mondo ultras, una realtà che, comunque la si pensi, disintossicata dalle devianze, sarebbe invece da salvaguardare, da incoraggiare quale fenomeno culturale e di costume, invece di interdire in ogni sua forma di espressione, arrivando persino a vietare e sanzionare l’uso di innocui fumogeni, piuttosto che l’ingresso di tamburi e di megafoni, di aste in plastica tubolare per le bandiere, di alcuni supporti scenografici alle coreografie, il tutto sempre a “discrezionalità” del funzionario di turno, in quanto ci devono spiegare perché se un asta porta bandiera in plastica può entrare a Cesena, a Cittadella è invece vietata. Nessun legislatore ha mai chiesto ad un ultrà cosa proporre in materia, nessun legislatore si è messo dalla parte di questa realtà sociale, l’ha studiata nel profondo e ha cercato di esserne interlocutore piuttosto che antagonista. Ma soprattutto nessuno ha mai evidenziato come i gruppi organizzati nel calcio ne rappresentino l’essenza, una parte integrante utile e necessaria a rendere lo spettacolo unico nel suo genere, tale da coinvolgere una larga percentuale della popolazione a prescindere da cultura, religione, politica, sesso, stato economico e sociale. A chi piace il calcio senza ultras? Ma, ancora meglio, ha senso il calcio senza ultras? Almeno quello che conosciamo noi, quello che seguiamo tutti, quello che ci piace e ci appassiona no, non piace, come non ci piacciono gli stadi vuoti e muti. Anni fa a Boston ho assistito ad una partita di basket fra i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, una delle due squadre più famose dello sport più seguito negli States. Uno spettacolo grandioso. Una festa dello sport. Qualcosa di bello da ricordare. Ma la passione? Ecco, io ho visto in quell’occasione entusiasmo e delusione contrapporsi, grandi emozioni certamente, ma non ho sentito la passione, quel sentimento che solo il calcio, come lo intendiamo noi, sa dare. La passione, sì, quella che ti prende dentro, che ti coinvolge, che va aldilà dell’evento sportivo, della performance dell’atleta, del giudizio estetico. Il viso terreo, la paura, oppure le lacrime, la gioia incontenibile, il tremore, in quello stadio a Boston io non l’ho visto e non l’ho sentito fra tutta quella gente sugli spalti intenta a mangiare hot dogs e a bere birra, ma soprattutto semplicemente a divertirsi. Ed è qui che sta tutta la differenza tra “quel” mondo e il nostro. Lo sport è divertimento, è spettacolo. Il calcio no. Il calcio è passione e sentimento. Il calcio è una fede, un modo di essere, qualcosa in cui credere e riconoscersi. Ecco perché nel calcio ci sono gli ultras e nel basket americano, come nel football australiano o nel polo britannico no. Per fare un esempio artistico che dia l’idea di quello che intendo dire, prendo ad esempio due movimenti artistici di due epoche diverse, l’impressionismo ed il cubismo, e due autori che meglio le rappresentano come Claud Monet e Pablo Picasso. Se guardo un “Campo di Papaveri” di Monet ne apprezzo lo stile, i colori, il senso di pace e di serenità che diffonde, insomma, mi godo lo spettacolo. Ma se guardo “Guernica” di Picasso non mi soffermo certo sui colori, sulla tecnica, sulle forme, non mi godo nessuno spettacolo, ma mi appassiono ed allo stesso tempo mi prende quello che rappresenta, quello che mi comunica, soffro insieme a quelle figure difformi che rappresentano la crudeltà della guerra, non sono solo spettatore, ma mi sento coinvolto in quel dramma. Eppure, nella loro diversità, entrambi sono arte, entrambi sono quadri dipinti da due artisti univocamente riconosciuti come tali, ma rimangono due cose differenti, sono due patrimoni allo stesso tempo comunque da salvaguardare, pur non essendo paragonabili. Chi vuole far diventare il tifoso di calcio in Italia simile al tifoso di basket negli Usa vuole l’impossibile, vuole trasformare Picasso in Monet, vuole confondere il cubismo con l’impressionismo, vuole cambiare la storia e la cultura di questo Paese.
 
Circa un mese fa, a Padova un tifoso del Foggia, un ultrà, dopo aver visto sfumare incredibilmente una vittoria ormai data per scontata, a fine partita, in un momento di rabbia – sbagliando, s’intende – ha lanciato un petardo in uno spazio vuoto fra il settore ospiti ed il terreno di gioco senza che in quel momento ci fosse nessuno in quel luogo e in quella direzione, dunque senza avere la minima intenzione di fare del male ad alcuno. Un petardo, ben inteso, non una bomba carta. Orbene, mentre chi, fra i tifosi del Padova, inseguendo e malmenando un paio di tifosi del Foggia sfuggiva alle maglie della giustizia, le attente telecamere di sicurezza dell’Euganeo riprendevano l’episodio del petardo e quell’ultrà, poche settimane dopo, si è vista arrivare la digos a casa, come fosse un terrorista di Prima Linea, un pericoloso delinquente o un latitante mafioso, e si è visto sottoposto a giudizio per il reato ascrittogli, rischiando da uno a quattro anni di reclusione e l’interdizione dallo stadio fino a otto anni. Ebbene, proprio a Foggia, durante la partita casalinga contro il Benevento, i tifosi della strega hanno esploso petardi, cipolle, bombe carta, gettandole a ripetizione con l’intenzione di fare del male sia sul terreno di gioco durante la partita (a pochi passi da un loro stesso calciatore) sia in mezzo alla gente che assisteva alla partita dalla Curva Mancini, il tutto senza che si sia mai saputo quali provvedimenti e contro chi le istituzioni preposte abbiano agito per scovare e punire i colpevoli di quella deplorevole azione, mentre le autorità sportive comminavano la stessa sanzione pecuniaria - e per le stesse motivazioni - sia ai carnefici (gli ultrà beneventani), dunque al Benevento, che alle vittime (gli ultrà della Curva Nord), quindi al Foggia. Ma a Padova qualcuno si è visto addirittura diffidato e a rischio di conseguenze penali per essere stato ripreso dalle solite videocamere con un temperino in mano, nel dopo partita e nei pressi della propria autovettura - temperino usato solo per tagliare pane e salame - perché, nello stesso momento, qualcuno discuteva animatamente con un addetto al parcheggio che, dopo aver fatto pagare la sosta, intimava a tutti di liberare l’area con fare perentorio, scatenando la reazione verbale – sbagliata anche questa – di un tifoso un po’ sbronzo che al contrario non ha subito alcuna conseguenza. Sempre per rimanere a casa nostra, l’anno scorso, dopo il derby al San Nicola, sempre a causa di un petardo esploso nei pressi di uno steward, la digos ha identificato ad uno ad uno tutti gli occupanti del settore ospiti, arrivando a colpire con un provvedimento di diffida anche chi, per assurdo - così mi riferiscono i suoi amici - a quella partita non aveva nemmeno assistito e che solo mesi dopo, sostenendo ingenti spese legali, è riuscito a dimostrare la sua estraneità ai fatti. Di questi episodi di ordinaria ingiustizia potremmo raccontarne a decine. Tutto questo non solo alimenta la violenza anziché reprimerla, perché diffonde un senso di ingiustizia diffuso nelle vittime di queste punizioni e nei loro compagni, ma diseduca in quanto, pur ammettendo la colpa, aumenta il senso di impotenza patito da chi si vede colpito da una sproporzione assoluta fra quanto commesso e la pena comminatagli. Prendendo sempre a prestito una citazione del Beccaria mi senti di confermare che “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile” (intendendo per vicinanza non solo l’immediatezza della giustizia rispetto al reato, ma anche la proporzione fra quanto commesso e quanto sanzionato, altro tema cardine di tutto il suo pensiero illuminato). Tutto ciò è molto lontano dal concetto di educare visto che sempre nel trattato “DEI DELITTI E DELLE PENE” si legge che “Il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione”. Ma può mai essere educativa una pena ingiusta? Può mai essere educativo sparare nel mucchio - chi si coglie si coglie - senza distinzioni di sorta? È perseguibile dallo Stato la logica del “colpirne uno per educarne cento” che proprio quello stesso Stato ha combattuto all’epoca della lotta armate e delle Brigate Rosse? I DASPO sono diventati non un deterrente ma un’arma di dissuasione di massa dal frequentare gli stadi in generale e le trasferte in particolare. Un modo per sfoltire i ranghi di chi fa del tifo una ragione di vita. Un modo per trasformare gli ultras, in questa lucida follia, in manichini da teatro senza arte né parte. Anche a Firenze, anni fa, i “benpensanti” hanno provato a dare regole al calcio in costume, tradizione secolare del capoluogo toscano. A causa di una partita degenerata in rissa, hanno provato a dissuadere, attraverso l’applicazione sistematica della legge, i protagonisti di quell’evento a praticarlo, contestando regole e comportamenti che in quell’evento e in quel contesto sono stati da sempre tollerati in una sorta di “zona franca” che non è arbitrio, non è privilegio, ma è tradizione popolare, dunque cultura, come una Chiesa di Arnolfo di Cambio, una scultura di Michelangelo, un ritratto di Leonardo o un canto della Divina Commedia. Così hanno cancellato con un colpo di spugna  una tradizione che ha impoverito la città, che ha deluso i turisti e che solo attraverso un dialogo fra i calcianti e i politici, una volta capite le ragioni degli uni e degli altri, una volta assodato che nessuno era l’antagonista dell’altro, si è arrivati a ripristinarla con regole meno medioevali ma condivise, e a rivedere sulle pedane insabbiate di Piazza Santa Croce i calcianti sfidarsi nelle tradizionali ed epiche sfide fra le squadre di quartiere.
Certo, le “zone franche”. Ci sono nelle tradizioni di eventi popolari zone franche dove si può derogare dalle regole sociali condivise, dove si possono ammettono cose che nella vita magari possono essere proibite o addirittura disdicevoli. Pensiamo al “Palio di Siena”, per esempio, dove cavalli e cavalieri sfuggono spesso alle più elementari regole del buon senso venendo maltrattati e malmenati, pensiamo al “Carnevale di Ivrea”, dove a colpi di arance ci si affronta in risse anche violente nel nome di antiche rivalità rionali, pensiamo a tutte le tradizioni cruente legate al culto del toro nella civilissima Spagna, come il “Toro Jubilo”, o la stessa “Festa di San Firmin” a Pamplona, dove animali maltrattati e persone ferite dagli stessi - impauriti o inferociti dalle torture - sono la normalità. Con questo nessuno pretende che negli stadi agli ultras sia permesso tutto. Nessuno chiede che lo stadio diventi una sorta di “free for all” senza nessuna regola. Nessuno vuole esaltare comportamenti violenti o delittuosi. Ma è un fatto che gli ultras nei nostri stadi sono un fenomeno culturale e popolare alla stregua di tanti altri non meno significativi, con la prerogativa di essere un fenomeno ciclico e diffuso, dunque difficile da gestire. Ma basterebbe stabilire quale sia quella “sottile linea rossa” che divide il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il possibile dall’impossibile, per dare a questo fenomeno, a questi ragazzi, il riconoscimento di valore culturale del loro essere tifosi, del loro vivere l’evento sportivo in maniera così intensa, così totalizzante, così esclusiva. Parlandone tutti insieme, mettendo su un tavolo di discussione, mettendo a confronto gli uni con gli altri, sono convinto che gli aspetti più estremi e violenti di questo fenomeno sarebbero ridotti a zero senza che un solo poliziotto venga chiamato a difendere il territorio fuori e dentro gli stadi, perché naturalmente gli ultras, riconosciuti tali e pertanto “sdoganati” dal potere costituito, si autoregolamenterebbero. Tutto quello che non conosciamo ci fa paura. Tutto quello che è proibito però ci induce in tentazione. Le passioni non si spengono con la forza. Né con quella pubblica né con quella della ragione perché le passioni, in quanto tali, sono irrazionali e irrefrenabili. Il segreto è semplicemente non contrastarle sapendole comprenderle ed accettare. Sento dire che il Ministero dell’Interno ha in animo di promulgare una legge quadro che, eliminando tutto l’insieme delle norme prodotte in questi ultimi anni in materia di sicurezza negli stadi, riporti quantomeno un po’ di razionalità in questo delicatissimo settore legislativo, un po’ di certezza del diritto e di proporzionalità delle pene in un campo che in parte sta scappando di mano alle istituzioni, colpendo il singolo e non punendo in tal guisa tutta la collettività. Ebbene da queste umilissime pagine, da questa umilissima testata, lanciamo un appello affinché non sia solo la politica o gli enti preposti a decidere cosa è bene e cosa è male fare perché tutti si possa godere del calcio nel modo che più ci rappresenta, semplici appassionati, semplici sportivi, così come ultras. Chiediamo che si apra allora quel tavolo convocando tutte le parti in causa, politica, istituzioni, enti preposti, professionisti del settore e, finalmente, anche i rappresentanti del tifo organizzato perché possa, alla buon ora, avere voce in capitolo, dare indicazioni e suggerimenti in un contesto e in uno sport in cui è parte integrante ma soprattutto necessaria. Il calcio che abbiamo imparato ad amare, senza gli ultras, è un’altra cosa, ha un altro sapore, è un fiore senza profumo e senza colore.
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A Pietro Iemmello

28/3/2019

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A Pietro
 
Sabato pomeriggio al gol di Pietro, lo chiamo per nome perché lui fa parte di questo popolo, di questa grande famiglia, l'emozione di quell’atto liberatorio è esplosa dirompente come quando un bambino attende e riceve dopo lunga attesa il regalo tanto sognato ed aspettato.
Ognuno di noi, a suo modo, ha manifestato cotanta gioia direttamente allo stadio Zaccheria o a distanza davanti allo schermo di una TV, di un pc o smartphone che si voglia. Quella palla accompagnata dal nostro Re nella rete avversaria ha rotto l’incantesimo ed ha alzato un nuovo forte vento di speranza in tutti noi tifosi rossoneri, nulla era ancora perduto, il vessillo Rossonero era ancora orgogliosamente in gioco.
Da lì a qualche minuto, il giubilo tutto si è unificato ed alzato al cielo al triplice fischio finale dell'arbitro Pillitteri che a distanza di un anno ci ha restituito al momento di maggiore necessità il maltolto del rigore negatoci a Perugia .
Caro Pietro, emozionarsi per il Foggia è un sentimento intimo che appartiene ad ognuno di noi e che non ha modi, ne confine ne tempo, ce l'hai, ti è stato donato un giorno e lo porterai con te per tutta la vita, non importa se il più delle volte è sofferenza, la gioia di una vittoria le cancellerà tutte.
Semper Fidelis
   
foto: Roberto Marzano
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Bridge Over Troubled Water

21/3/2019

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L'altra sera, dopo l’ulteriore amarezza di un Foggia che sfiora la vittoria per l’ennesima volta fermato su un ingiusto pareggio dal Cittadella di turno, mi sono estraniato da tutto e da tutti. Tante cose avrei voluto dire nella rabbia del momento, tante cose che poi molti non avrebbero capito avendomi conosciuto solo attraverso il personaggio di Francesco da Prato sui social o su Mitico Channel. Riconosco che nel tempo il peso di non essere più un tifoso qualunque mi ha un po’ cambiato, forse ha tolto spontaneità alle mie disamine, ha prevalso il politically correct di chi sa che, in certe circostanze, le parole sono sassi e, nel contesto che viviamo noi tifosi e la nostra squadra del cuore, le parole vanno pesate ad una ad una, a costo anche dell’impopolarità. Di parole fuori posto, articoli, indiscrezioni, critiche feroci e cattiverie, ne abbiamo sentite abbastanza in questi giorni perché anch’io mi unissi al coro di un pessimismo dilagante che sta affogando di responsabilità calciatori che non riescono, inutile nasconderci dietro ad un dito, a giocare divertendosi, come facevano nel Foggia di De Zerbi o di Stroppa, che poi è l’unico modo per rendere al massimo sul campo, aldilà di tecniche, tattiche e dei valori individuali dei singoli. Il campionato è nato male, ormai è sotto gli occhi di tutti. Partire con l’handicapp di 8 punti di penalità ha costretto la proprietà del Foggia ad allestire una squadra che avrebbe dovuto, di slancio, nel giro di 4 o 5 turni, azzerare tutto e prepararsi ad un torneo di vertice. Ad errore si è sommato errore. In primis si è stati ingenui nella circostanza delle somme a nero fatte circolare nei conti sociali, e certe ingenuità, se poi ti chiami Foggia, te le fanno scontare senza pietà. Secondariamente, acquistando giocatori sui cui nomi nessuno in estate aveva avuto nulla da ridire, ci si è illusi, e si è illusa una piazza esigente come la nostra, di poter raggiungere sin da subito risultati molto più ambiziosi di quanto sarebbe stato più cauto dichiarare, almeno all’inizio del torneo. Nel passare delle giornate, nel divenire di partite che poco avevano a che vedere con il Foggia ambizioso a cui ci eravamo abituati persino nel primo campionato di serie B (ricordiamo tutti lo splendido girone di ritorno dell’anno passato), lo scoramento ha preso un po’ tutti, anche se va riconosciuto che da parte del tifo organizzato, come di quello comune, mai è venuto a mancare nei 90 minuti un incitamento incessante e caloroso ai ragazzi in rossonero. Ma quando poi il tempo è passato e la situazione di classifica non è migliorata, le piccole ombre all’orizzonte sono diventate presto neri presagi di tempesta che nel giro di poche settimane hanno gettato nello sconforto l’intera tifoseria. Ed è qui che vorrei fare un distinguo, premesso che in questa situazione noi tifosi ci siamo ritrovati vittime e non carnefici di questa amara situazione. C’è un qualcosa che, in tutto questa storia, è risultata una nota stonata, ed è la cattiveria gratuita, la malignità, la malafede di taluni (una piccolissima ma rumorosa minoranza) che in questa situazione ha pensato bene di buttare benzina sul fuoco, di mettere la società sul banco degli imputati senza se e senza ma, di giubilare per prima cosa calciatori simbolo che si sono sentiti mortificati, e che questa mortificazione si sono trascinata sul campo. Ed è a questi personaggi che non perdono il loro comportamento, a prescindere dalle ragioni e dai torti, dalle verità e dalle menzogne, non alla straordinaria e commovente tifoseria del Foggia. Nei presunti errori della società io non vedo tutta questa cattiva gestione, non vedo malafede, non vedo interessi personali a danno del Foggia, ma tutto il contrario. Si è sbagliato per troppo amore, credendo di fare il bene del Foggia, forse anche oltre quello che sarebbe stato possibile fare da due fratelli che, per quanto facoltosi e di grandi capacità imprenditoriali, perdendo milioni di euro dietro al nostro club, sono stati lasciati soli da tutta una comunità, da imprenditori foggiani come loro che avrebbero potuto supportarli e consigliarli per il meglio. Lasciati soli da questi sì, ma non da tantissimi tifosi che abbonandosi in massa ed a prezzi importanti, comprando tessere di sostegno e gadgets presso gli stores, hanno dimostrato la loro vicinanza, la solidarietà e la gratitudine verso chi, magari sbagliando in buona fede, si è fatto persino la galera per questi colori, cosa che qualcuno ha dimenticato troppo in fretta.
Sono successe tante cose in questi mesi, il Foggia non è riuscito a venire fuori da queste sabbie mobili, ma non è stato certo aiutato in questo senso dalla buona sorte. Non voglio prendere in giro nessuno. La nostra situazione è rimediabile, certamente, ma si è maledettamente complicata e di giornate per recuperare ne mancano sempre meno. Quale sarà allora il nostro destino? Nella settimana passata sembrava davvero tutto finito. Sconfitta umiliante a Lecce, macchine incendiate, petardi intimidatori, società che avrebbe avuto difficoltà a pagare persino stipendi e contributi, Padalino esonerato e Grassadonia richiamato in panchina, giocatori sotto pressione e minacciati. Eppure la tifoseria intera, gli ultras come i tifosi qualsiasi sparsi a Foggia e nel resto d'Italia, capita la difficoltà, ha fatto fronte, ha creato un ponte su acque molto turbolente sul quale far passare indenne il Foggia per portarlo ad una salvezza miracolosa. Stesso ponte gettato sulle stesse acque agitate dai fratelli Sannella che, ancora una volta, dimostrando un attaccamento fuori ogni limite a questi colori, hanno ripianato le mancanze economiche, anche grazie alla collaborazione dei loro tesserati, garantendo che quel ponte, almeno fino all'approdo sulla sponda opposta, rimanesse ben saldo sotto i piedi del nostro sodalizio, perchè un eventuale salvezza sul campo non fosse vanificata da faccende extracalcistiche. 
Allora come non ricordare una vecchia canzone di Simon and Garfunkel: “Bridge Over Troubled Water”, scritta nel 1970, ma che mette i brividi tanto rispecchia nel testo queste vicende, l’affetto e la solidarietà che in questi giorni stiamo raccogliendo tutti per salvare la nostra squadra. La trascrivo perché è il racconto di un percorso che, pur nella sofferenza, col nostro aiuto porterà i nostri colori salvi alla meta, aldilà di queste acque tempestose.

“When tears are in your eyes, I'll dry them all
I'm on your side, oh, when times get rough
And friends just can't be found
Like a bridge over troubled water
I will lay me down
When you're down and out
When you're on the street
When evening falls so hard
I will comfort you
I'll take your part, oh, when darkness comes
And pain is all around
Like a bridge over troubled water
I will lay me down

Sail on by
Your time has come to shine
All your dreams are on their way
See how they shine
Oh, if you need a friend
I'm sailing right behind
Like a bridge over troubled water
I will ease your mind
I will lay me down”
​
[Quando le lacrime si affacciano ai tuoi occhi
io le asciugherò tutte
Sono dalla tua parte
Quando i tempi si fanno difficili
E non si riescono a trovare amici
Come un ponte sull’acqua tempestosa
Mi distenderò

Quando sei esausta
Quando sei per la strada
Quando la sera cala così spietata
Ti darò conforto
Prenderò le tue difese
Quando giunge l’oscurità
E’ il dolore è tutto intorno a te
Come un ponte sull’acqua tempestosa
Mi distenderò

Continua a navigare
È arrivato il momento in cui brillare
Tutti i tuoi sogni stanno per avverarsi
Guarda come brillano
Se hai bisogno di un amico
Sto navigando proprio dietro di te
Come un ponte sull’acqua tempestosa
renderò sereni i tuoi pensieri
Come un ponte sull’acqua tempestosa

Mi distenderó ]

Francesco Bacchieri

 

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Io e Francesco da Prato insieme sotto un'unica bandiera - UNITI SI VINCE!

15/3/2019

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Caro Francesco, la nostra amicizia è nata sui social, non ci siamo mai conosciti di persona, ma più di un anno fa ci siamo seguiti e scritti spesso, ed abbiamo più di una volta avuto idee convergenti su come andrebbe interpretato il tifo (soprattutto ai tempi in cui era molto accesa la divisione tra i sostenitori di De Zerbi e di Stroppa). 
La nostra amicizia è stata sempre viva, accesa da discussioni, confronti (anche a muso duro) e spesso abbiamo anche litigato. Tu  hai sempre cercato di placare gli animi, mentre il sottoscritto, per carattere sanguigno ed impulsivo, è meno tollerante rispetto alle divergenze di opinioni. Però la passione rimane, troppo forte, l'amore per la nostra squadra ci ha sempre unito, così immancabilmente abbiamo sempre finito per chiarirci e, da persone intelligenti, ogni volta ci siamo riappacificati. Hai ammirato la mia passione per il Foggia a tal punto che, condividendo tante mie idee, mi hai voluto nel gruppo "Pacc' d'u Fògge", facendomi amministratore al fine di darti una mano per mediare le tensioni fra i tifosi, con l'obiettivo di abbassare i toni delle discussioni, spesso controproducenti, fra chi commentava o pubblicava i vari post in maniera poco ortodossa. Hai sempre riconosciuto che in quel periodo abbiamo fatto insieme un ottimo lavoro, collaborando in tutto e per tutto, e le cose sono andate a lungo a meraviglia. Il gruppo stava rispondendo alla grande ai nostri appelli di convivenza sana e di rispetto reciproco.
Purtroppo però, ancora una volta divisi dall'idea di accettare o meno l'ingresso nel gruppo di taluni che, sia pure tifosi come noi, avevano avuto nel passato degli screzi e dei duri scontri con la mia persona e che, in quel particolare momento, personalmente non ritenevo fosse corretto accogliere tra di noi, siamo arrivati nuovamente a discutere e ci siamo separati in maniera dura e decisa. So bene che per te un tifoso è come un fratello, anche se è irrispettoso o destabilizzante, dunque cerchi sempre la mediazione con tutti. Io, al contrario, come sai, sono più passionale ed istintivo ed è per questo motivo che la nostra amicizia è finita e mi sono sentito tradito da te a tal punto da lasciare il gruppo e il mio ruolo di amministratore. Visto che poi, dopo la mia uscita da "Pacc' d'u Fògge", ho visto iscriversi al gruppo molta gente con la quale non avevo avuto in passato buoni rapporti, mi sono sentito ancor più ferito e così ho cominciato a criticarti, non perdendo occasione per farlo, anche perché davvero non capivo il cambiamento di atteggiamento nei miei confronti, non capivo cosa ti fosse preso, anche se sapevo bene che avevi deciso di aprire le porte a tutti nel tuo gruppo solo perché hai sempre ambito ad unire i tifosi e non a dividerli. 
Con il passare del tempo però sapevamo entrambi che, anche avendo perso i contatti, nonostante l'astio che si era creato, rimaneva nel fondo della nostra anima qualcosa che ci continua ad unire come e più di prima: l'amore per la nostra squadra del cuore. Così, due giorni or sono, una nostra amica comune (che più volte ha cercato di mettere pace tra di noi) mi ha contattato informandomi che avevi pensato ad un' iniziativa, e cioè la promozione dell'acquisto di biglietti per la partita col Cittadella da parte di quei tifosi fuori sede che, non potendo vederla di persona allo stadio,  avrebbero comunque comprato alcuni tagliandi per dimostrare la propria vicinanza e solidarietà alla Società, chiedendomi se fossi d'accordo e se avessi sostenuto dal gruppo "Magico Foggia", di cui ora faccio parte, questa proposta. Come sai gli ho risposto che l'idea era bella, ma forse sarebbe stato meglio farla lasciandola nell'anonimato, perché non sembrasse una trovata pubblicitaria e che comunque ti avrei contattato per discuterne. Ci siamo così messaggiati dopo tanto tempo e, come d'incanto, ogni problema fra di noi è sparito, come se niente ci avesse mai diviso. Pensando alle difficoltà odierne del Foggia, ti ho detto che la tua idea mi piaceva ma che, al contempo, anche noi stavamo pensando ad un'iniziativa di sostegno al Foggia Calcio, qualcosa che avesse forse anche maggior impatto mediatico perché Foggia e i suoi tifosi non meritano tutto quel fango buttatoci addosso da tv e giornali a causa di episodi isolati che tutti abbiamo condannato e che, magari, nemmeno sono riconducibili alle nostre vicende calcistiche, lasciando alle istituzioni preposte il dovere di svolgere le dovute indagini. Ci siamo confrontati nel nostro gruppo e con il nostro amministratore Francesco Zenga, insieme ad Alena, Arturo Leone e Daniele Nardella, abbiamo avuto l'idea di creare l'hashtag #AiutiamoilFoggiaCalcio. Siamo in tanti, e se ognuno facesse un acquisto nello Store o sul sito ufficiale del Foggia Calcio, riusciremmo a contribuire materialmente alla causa rossonera. L'abbiamo pubblicizzata subito e mi ha fatto davvero piacere che tu l'abbia condivisa con noi e promossa sul tuo ed altri gruppi affinché, insieme alla vostra iniziativa del biglietto, contribuisca ad aiutare davvero la società del Foggia in difficoltà di liquidità.
Mi hai però "fregato", perché, con la complicità di Alena, ti sei fatto dare la mia data di nascita ed hai voluto regalare a me uno di quei biglietti che avete acquistato in Toscana, regalo che ho accettato perché ho ritenuto fosse un gesto di rinnovata amicizia che, naturalmente, mi ha fatto davvero piacere. 
Adesso, con questa mia lunghissima lettera, voglio evidenziare che la nostra storia dimostra come sia inutile dividersi quando si ha in comune una grande passione come quella che ci unisce per i colori rossoneri, e come ragionando ed avendo un confronto sereno, anche trovandosi qualche volta su posizioni diverse, tutto si può e si deve risolvere senza trascendere in discussioni inutili che alla fine non portano davvero a nulla. 
L'hashtag #AiutiamoilFoggiaCalcio delle due Curve "UNITI SI VINCE" lo abbiamo sposato insieme appieno e mi auguro che lo facciano tutti i  calciatori in campo, sabato contro il Cittadella e nelle prossime partite.     
Ti ringrazio comunque per il gesto nei miei confronti e ti lascio con uno slogan che ci è caro a tutti: "IL NOSTRO TIFO È COME L'INFERNO IL NOSTRO AMORE REGNERÀ IN ETERNO"    


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Noi speriamo che ce la caviamo

11/3/2019

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PictureFoto di Roberto Marzano
​Marcello d’Orta, un anonimo insegnante napoletano, pubblicando la raccolta di una sessantina di temi dei suoi “sgarrupati” alunni di Arzano, paese difficile dell’entroterra partenopeo, passò alla storia per aver dato alla luce, quasi involontariamente, uno dei best seller più venduti della letteratura italiana contemporanea, per assurdo scritto da ragazzini che l’italiano lo masticavano a fatica, ma che nella loro singolare sgrammaticatura descrivevano con vivida efficacia il pressapochismo, la miseria, l’abbandono, l’anarchia e la delinquenza diffusa della periferia napoletana negli anni ottanta. Ma il successo di quel libro rimase tutto nell’ultima frase dell’ultimo tema del più terribile alunno di quella classe che, descrivendo l’Apocalisse, lascia tutti di stucco con quel “Io speriamo che me la cavo” che, dopo tanta disperazione, apre le finestre quasi inaspettatamente al sole mattutino della speranza. Ora la scuola elementare di Arzano non è il Foggia, i suoi alunni non sono i nostri calciatori e, soprattutto, il loro maestro non è Gianluca Grassadonia, ma c’è un’attinenza tra quella storia e questi giorni inquieti e turbolenti in città, dietro le miserie e gli affanni della nostra squadra del cuore. C’è una lezione da imparare da quel libro, da quella sorprendente e commovente frase finale, scritta dal bambino che, più degli altri, quel degrado lo aveva vissuto sulla sua pelle, sul suo destino. Quella frase ci insegna che nei cuori puri, anche se segnati da una vita impossibile, alberga sempre una speranza, una luce che ci indica la strada per venire fuori dal tunnel. E il Foggia in quel tunnel ci si è infilato sin dall’inizio del campionato. Distrazione dopo distrazione, scivolone dopo scivolone, sfortuna dopo sfortuna, quella che doveva essere la squadra dei sogni, l’Invincibile Armada che ci aveva infiammato il cuore in quella domenica di fine agosto allo Zaccheria, si è rivelata poco alla volta la squadra dell’incubo, l’incubo di tornare mestamente a nasconderci nel calcio minore dopo solo due stagioni di respiro e di illusioni. Il campionato è alle battute decisive. In primavera si decidono le sorti di tutte le formazioni, nel bene e nel male, ed è da qui a qualche settimana che tutto sarà deciso, tutto sarà chiaro, niente sarà più riparabile, il dado sarà tratto. Vincere o morire, è questo il destino del Foggia, il solito destino, aggiungerei, in una città sfortunata che paga spesso per colpe non sue, che quando cade fa sempre più rumore, perché quando sei ultimo, sei maglia nera, sei più debole ed è più semplice schernirti. Chi indossa la maglia del Foggia tutto questo lo sa, lo deve sapere. Non possiamo e non vogliamo credere che quei ragazzi non capiscano cosa hanno per le mani, quali maglie indossano, quale anelito di riscossa si cela dietro al glorioso vessillo rossonero. In battaglia il portabandiera non muore mai, perché se cade trova sempre un compagno che prende la bandiera salvandola dal cadere nel fango e nel disonore. Noi questo chiediamo a questi ragazzi ed al loro nuovo e antico maestro. Dimenticate tutto, lasciate alle vostre spalle le storie crudeli di ieri, le liti, gli insulti, la paura, i botti e gli incendi. I tifosi, la città, sono altra cosa. Siamo amareggiati, delusi, quasi disperati, ma guardiamo ancora a voi come alla nostra unica ancora di salvezza e a voi adesso questa fiducia la diamo volentieri ma ad una condizione: tenete alta quella bandiera e preservatela dal cadere nel fango, non uno, ma tutti insieme, sorreggetela e non lasciate che cada nelle mani del nemico. Non merita l’umiliazione e la polvere dell’arido terreno della sconfitta.
Ci affidiamo a voi, e in voi ci crediamo. Sappiatelo. Nonostante l’apocalisse, nonostante questo tunnel che non sembra indicarci una luce, come quegli alunni “sgarrupati” di quella scuola di Arzano, noi ci speriamo, noi speriamo che ce la caviamo.    

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    Francesco Bacchieri

    Francesco Bacchieri, all’anagrafe Stellacci, laureato in architettura a Firenze, vive ed esercita la professione di architetto in Toscana ormai da 35 anni, da dove però non ha mai mancato di seguire i Satanelli in giro per l’Italia. Da oltre un anno, come Francesco da Prato, a fine partita commenta a caldo  le prestazioni dei rossoneri nella rubrica "Io la vedo così... ". 

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