A meno di 30” dallo scadere, allo Zaccheria, Kragl ha appena mandato fuori il “tiro della staffa”, un metro oltre il palo a destra di Minelli (ultima speranza di evitare una meritata sconfitta contro il Brescia), che già vedo qualcuno in gradinata che si gira e mi guarda, quasi soddisfatto, come per dirmi: <adesso non sogni più?> Così la corsa al “io l’avevo detto…” si è immediatamente aperta e le iscrizioni alla “fiera dell’ovvietà” si sono subito impennate, dallo stadio ai social e dai social ai giornali ed alle tv locali. Tranne me ed i soliti inguaribili ottimisti, sembra che in molti avessero pronosticato che dopo quattro vittorie… che dopo tanta ingiustificata euforia… che dopo tutta quella pressione addosso alla squadra… insomma, che avremmo perso, che non potevamo e non dovevamo sognare, pensare in grande, che quando si vuole arrivare in alto, e non se ne hanno forza ed esperienza, a cadere a terra poi ci si fa più male.
Volendosi cimentare in una analisi antropologica semiseria del tifo rossonero, non potremmo non isolare due archètipi tra i più caratteristici. Senz’altro ci sono i “bipolari”, quelli che se oggi vinci “nemmeno il Real Madrid…”, ma se la settimana dopo perdi “l’allenatore è da esonerare…”. Gente che si accende come fosse paglia sotto il sole d’agosto, inguaribili ottimisti quando le cose vanno bene, depressi endemici anche solo se la Juve ti batte 1-0 a Torino su rigore inesistente al 90’, dopo che magari l’hai dominata prendendo due pali ed una traversa! Poi ci sono i complottisti ed i catastrofisti, quelli che hanno “misteriose” fonti certe in società e che, per esempio, ti riferiscono (e si inventano) di sanguinose faide negli spogliatoi, agguati a Stroppa, divisioni tali da far sembrare vecchi amici Guelfi e Ghibellini. Pessimisti cronici che se il Foggia finisse primo in serie B si rammaricherebbero perchè raggiungerebbe sì la serie A, ma non la qualificazione per i preliminari di Europa League! Per completezza d’indagine ci sarebbero anche i “separati in casa” devoti a Stroppa gli uni ed a De Zerbi gli altri, specie nuovissima della quale abbiamo già ampiamente dissertato e che, vivendo di vita propria in contrapposizione avulsa dai risultati sportivi del Foggia, questa volta non prenderemo in esame. Queste categorie sono peró la minoranza “rumorosa” del nostro tifo. Sono quelli che si espongono, che fanno parlare di sè, che impazzano tra un “post” e un “tweet” e sui sempre più numerosi gruppi WhatsApp. La stragrande maggioranza “silenziosa”, il Foveae parmularius communis (tifoso del Foggia comune), invece “pensa positivo” a prescindere (razza a cui appartiene chi scrive). È avvezzo alle sconfitte, alle delusioni ed alla sofferenza, tutta roba che ha scritte nel DNA dalla nascita, ma ha una fede incrollabile ed un cuore a prova d’infarto. Se stà male e non ha piu il dono della parola dopo una partita persa (ieri ho chiesto a più d’uno di fare la clip al mio posto), il giorno dopo è già proiettato alla gara a venire. Ma sì, vinceremo la prossima, “sursum corda!” E via così di fiducia fino al sabato successivo (che poi questa volta è già martedì sera). La valigia è già pronta (sul letto) e i motori sono accesi. Appuntamento a Novara a sfidare il gelo siberiano in tanti che nemmeno Garibaldi a Quarto avrebbe mai sognato di radunare, ma con il solito imprescindibile obiettivo: vincere! Così se Rossella O’Hara, persa una guerra, una fattoria, una figlia e l’amore dell’affascinante capitano Rhett Butler riesce ancora a vedere il cielo blu sopra le nuvole, per noi, fidanzati non corrisposti delle magiche maglie rossonere, domani sarà sempre un altro giorno! A Firenze la pioggia tamburella sul mio parabrezza mentre affronto le ultime rampe prima del Piazzale Michelangelo, la splendida terrazza panoramica voluta e progettata da Giuseppe Poggi quando la città dei Medici voleva diventare Capitale. Sono le due del mattino, tira vento e fa freddo. Non ho ancora girato la mia clip a commento della partita per Mitico Channel e Biagio Porricelli mi ha appena ricordato che avrei già dovuta mandargliela in serata per pubblicarla sul sito. Mi viene un’idea. Accostare la rinascita del Foggia con il Rinascimento fiorentino che è tutto lì, illuminato e raccolto ai piedi di quella spianata, lambito dalle acque scure e rumorose dell’Arno. Dove sempre si accalcano turisti e bancarelle non c’è più nessuno, nemmeno una macchina parcheggiata. Ma ho fortuna. Un gruppetto di ragazzi si è attardato in un locale, in tre sotto un ombrello cercano di raggiungere la loro auto più sotto. Smetto il giubbotto, indosso la mia maglia del Foggia e li fermo. <Qualcuno di voi mi girerebbe un filmato col telefono? Faccio un breve commento sulla vittoria del Foggia contro il Carpi per un’emittente web>.
Mentre l’acqua mi ha già inzuppato e la pioggia gocciola giù dal viso mi guardano come se avessero incontrato un marziano appena sceso dall’astronave. <Il Foggia? Il Carpi? Ma cos’è, uno scherzo?> Spiegare a dei ragazzi toscani cosa ci fa un ultracinquantenne con la maglietta del Foggia sotto un acquazzone alle due di notte a Firenze non è cosa da poco, credetemi. L’Ospedale Psichiatrico di Volterra è stato chiuso dalla legge Basaglia (per fortuna) già da quarant’anni. Qualche matto in giro puoi trovarlo. Ma uno dei tre, Bartolomeo, mi guarda negli occhi e mi dà fiducia. <Va bene, ti riprendo io>. S’inzuppa anche lui ma non gli importa, sembra addirittura divertito. Poi mi saluta sorridendo, fa per infilarsi in macchina con gli altri quando si volta quasi all’improvviso e mi domanda: <Ma quanto è importante per voi il Foggia? Quant’è esagerata questa passione?> Già, quant’è esagerata la nostra passione? Quanto è esagerato l’amore? “L’amore è sempre esagerato…” sussurra suor Caterina (Margherita Buy) ad Ernesto (Silvio Orlando) per spiegargli quanto sia totale la devozione per il Signore quando si sceglie di lasciare tutto e tutti per aiutare il prossimo nel commovente film “Fuori dal Mondo” di Giuseppe Piccioni. Non è blasfemo paragonare le due cose. Abbiamo bisogno di credere in qualcosa di sublime per sopportare i disagi del vivere, ma abbiamo anche bisogno di sognare. E il trait d’union tra il sacro e il profano ce lo suggerisce il “profeta” Kahlil Gibran quando ci invita a fidarci dei nostri sogni “perchè in essi è nascosto il passaggio verso l’eternità”. Nei due belli articoli su questo stesso giornale di Luciano Gallucci e Rino La Forgia, dopo le quattro vittorie consecutive degli uomini di Stroppa e Nember, è evidente che la voglia di sognare di tutti è tanta, ma trapela appena, ancora repressa quasi per pudore di confessare al mondo le più intime aspettative che ci albergano ormai nella testa. Ma “come puó uno scoglio arginare il mare?” Sembrano scritte per noi queste rime di Mogol per una vecchia canzone di Battisti. Che lo si voglia o no abbiamo tutti “quel” sogno nel cuore anche se abbiamo terrore solo a pensarlo. Avremmo un irrefrenabile voglia di volare anche se non riusciamo ancora ad assecondarla. Ma io che in vita mia ho fatto dell’estremismo una regola, che ho sempre scelto tra il bianco e il nero, che ho lasciato a sei anni la passione per la “invincibile armada” dell’Inter di Herrera per scegliere i “figli di un dio minore” del Foggia di Maestrelli, io che dai carri dei vincitori sono sempre sceso perchè alle carrozze dei potenti ho sempre preferito i piedi scalzi e il passo lento degli uomini semplici, ebbene io invece non ho paura di gridare con tutto il fiato che ho in gola che “quel” sogno non è più un miraggio! Sì, abbiamo una squadra che puó riportarci in serie A già da quest’anno, perchè negli occhi del nostro capitano e dei suoi compagni ho rivisto finalmente brillare la luce e la fierezza della nostra gente, donne e uomini che non vogliono arrendersi, che sognano il riscatto, che sanno osare, come i nostri ragazzi sui prati verdi degli stadi forestieri. Osare per vincere, tutti insieme. No, non ho paura di quello che dico e che penso, e non c’è sortilegio o scaramanzia che tenga. E sono ancora più sicuro di quello che coraggiosamente stó scrivendo quando mi ritornano alla mente le splendide parole liberamente tratte da una celeberrima poesia della scrittrice brasiliana Martha Medeiros (erroneamente attribuite a Pablo Neruda): “Lentamente muore chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco piuttosto che un insieme di emozioni, quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno battere il cuore. Lentamente muore chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno…” Chi sogna è vivo e non ha paura di vivere. Così, parafrasando Nazim Hikmet, mi verrebbe da dire che il più bello dei nostri viaggi è quello che non abbiamo ancora fatto, e allora buon viaggio a tutti ragazzi, mettiamoci in cammino, in fondo alla strada ci aspetta la gloria. Ieri è stato San Valentino, festa degli innamorati, ricorrenza risalente all’Inghilterra del XV secolo ma mutuata nell’accezione moderna dalla cultura nord americana dell’ottocento che la ricorda per le “valentine”, bigliettini d’amore spediti in quantità pressoché industriali alla persona amata, oltre che per un fatto di cronaca nera legato alla strage della banda di George “Bugs” Moran al 2122 di North Clark Street – Chicago (IL) da parte degli uomini di Al Capone nel 1929 (luogo oggi divenuto addirittura attrazione turistica per chiunque visiti la città sulle acque gelate del Michigan). Nell’occasione i social hanno visto moltissimi tifosi del Foggia dedicare un pensiero o una “valentine” alla propria squadra del cuore, una foto, un disegno, una battuta, persino una poesia (io non ho fatto certo eccezione). Ricorrente allora si è ripetuta la domanda delle domande, spesso oggetto di accese discussioni tra tifosi ortodossi (starei per dire talebani) ed altri meno intergralisti. Si puó tifare per il Foggia ed allo stesso tempo per la Juve, per il Milan o per altre note squadre metropolitane pluriscudettate?
Per rispondere faccio un viaggio nel tempo di almeno quarant’anni, quando lo Zaccheria era in tubi innocenti e tavoloni in legno e mentre seguivi col cuore in gola una discesa di Valente che lanciava in area Silvano Villa ecco qualcuno che ti strattonava la spalla chiedendoti quasi irriguardoso: <Giovane, che fa Intèr?> (rigorosamente con l’accento sulla “e”), proprio mentre Villa calciava magari alto sulla traversa a porta vuota il gol del vantaggio e di quello che facevano i meneghini te ne importava tanto quanto un monologo di Carmelo Bene al Piccolo di Milano. Tutti all’epoca portavamo una radiolina allo stadio per ascoltare il mitico “Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto”, trasmissione radiofonica cult concepita da Zavoli e Bartoluzzi nel 1960, unico modo per poter seguire la tua squadra del cuore dalla A alla C in un mondo dove Pay Tv e Diretta Streaming non erano concepiti nemmeno in una sceneggiatura di fantascienza di Fred Hoyle. A rendere popolarissima quella trasmissione radiofonica due radiocronisti eccezionali per carattere, preparazione e timbro vocale. Erano Enrico Ameri e Sandro Ciotti, che si palleggiavano la cronaca dalle partite principali intervallati sporadicamente dai colleghi negli stadi minori di A e B. Niente a paragone coi Caressa ed i Marianella d’oggi, abili solo ad infondere emozioni in partite teleriprese da qualsiasi angolazione e velocità. Enrico Ameri e Sandro Ciotti, con il solo racconto e la loro straordinaria abilità, descrivevano in tempo reale e con poche e frenetiche parole dettagli di gioco, falli e gol che ti pareva di vederli per davvero. Due giganti inarrivabili del giornalismo sportivo, autori spesso di gag irresistibili. Una sicuramente la più famosa. <Scusa Ameri, sono Ciotti> era la frase più frequante durante tutta la diretta, interrompeva la cronaca del collega allorquando il radiocronista milanese soleva ragguagliare gli ascoltatori di un cambio di risultato nel suo campo. Ebbene, capitò che in un’occasione concitata, dovendo chiedere la parola al collega, Ameri urlò <Scusa Ciotti, sono Ciotti.> tra l’ilarità di milioni di radioascoltatori esterefatti. L’altro non si scompose nemmeno un pò, e candidamente (e vagamente divertito) con quella inconfondibile voce rauca che pareva uscire dalle grotte di Frasassi ribattè: <Veramente… Ciotti sono io!> Altri tempi. Così la radiolina alla partita la portavamo tutti, ma solo per sentire di risultati che interessassero il cammino della squadra in campionato che, tra gli anni ’60 e gli anni ’90, era sempre in lotta tra A e B (qualche volta in C) sempre per obiettivi da “dentro o fuori”. La richiesta allora del risultato di un’altra formazione, lontana anni luce per forza e tradizione dalla nostra, a noi giovani tifosi (ma non solo) ci sembrava frutto di un vecchio provincialismo, una sottomissione sportiva, un ammettere che loro erano i padroni del calcio occupandone il proscenio e lasciando a noi poco spazio tra i pannelli delle quinte. Utili allo spettacolo sì, ma nemmeno degni di esserne considerati comparse (quelle erano la Fiorentina, il Bologna, il Torino, la Lazio, il Napoli e la Roma). Noi ragazzi, con l’orgoglio e gli ideali dell’età, non ci stavamo a fare la parte del Davide contro Golia (come qualcuno ha scritto parlando della nostra recente vittoria a Palermo), non ci sentivamo secondi a nessuno. Qualche anno prima avevamo battuto l’Inter di Herrera ed avevamo conquistato un paio di meritate salvezze in serie A e una finale di Coppa Italia. Anch’io tifavo Inter a sei anni, ma dopo aver visto la mia prima partita del Foggia allo Zaccheria, una sconfitta pesante (0-3) contro il Napoli di Altafini, strappai tutte le figurine di Mazzola, Corso, Burnich e Boninsegna e, come tanti a quell’età, mi tinsi per sempre il cuore e l’anima di rossonero. Allora alla domanda <Che ha fatto l’Intèr?> si rispondeva con fischi, urla e spintoni. <Vai a Milano a vederti Mazzola, se tanto ti piace, qui a Foggia giocano Colla e Pirazzini!> Certo che i circa vent’anni a navigare nei bassifondi del calcio nazionale hanno spinto tanti (troppi) a dedicarsi all’hobby preferito dagli italiani guardandolo dalla porta principale, perché un Foggia in serie D o in serie C2 non gli emozionava più o non gli emozionava abbastanza. Ed ecco il proliferarsi di questi tifosi “ermafroditi” che hanno cominciato come e più di allora a trepidare per una qualsiasi squadra di nome, purchè tutta nastrini e pailettes e con le bacheche piene di medaglie e trofei. Il Foggia? Un ricordo, un sentimento, un’affetto a cui dedicare qualche frettolosa visione al televideo, le due righe sulla Gazzetta il giorno dopo, una rubrica sulle tv locali. Così quel 9 settembre del 2012, sconfitti in casa dal Francavilla, ci siamo contati sulle dita di una mano, mentre tutti gli altri erano affacciati dal grande terrazzo di Sky a godersi il panorama del grande calcio dei soliti padroni. Ma questo è vero amore? Vedete, adesso che il Foggia “it’s came back” e gente come Pelusi, Lo Campo, Verile, Sannella, De Zerbi e finanche Stroppa hanno finalmente riportato pubblico ed entusiasmo allo Zaccheria, la passione è tornata forte e diffusa tra tanti, tra tutti, a Foggia come in provincia e tra tutto il popolo rossonero che soffre ed incita i satanelli lontani o lontanissimi da casa. Questa è gente che vive per il Foggia, che non ha altra fede, altra passione, altri aneliti. E allora, amici che pur tifando per il Foggia orgogliosamente professate innominabili (per me, come per tanti altri) fedi calcistiche nordiste o sudiste nazionalpopolari, sappiate che in un cuore rossonero non c’è posto per un altro amore. Sia chiaro però che non vi giudico (anche se non vi capisco) e non vi condanno, è una scelta che appartiene al vostro libero ed insindacabile arbitrio. Tuttavia concedetemi di dedicare a tutti voi un famosissimo versetto liberamente tratto dal Vangelo secondo Matteo (6,19-24) che nel passare dal sacro al profano tanto aiuta a spiegare mirabilmente la mia (e non solo) umile posizione a riguardo: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. No, non si possono servire due padroni, o si stà con Dio o si stà con Mammona!” A Pisa è ancora notte sul piazzale dell’areoporto G. Galilei, fa freddo e piove. L’autista della navetta guarda la mia sciarpa e mi chiede se stó per il Milan. Non è di Pisa e sa poco di calcio altrimenti non farebbe questa domanda. Lo perdono. Non è certo il tempo e l’orario disagevole del volo che mi impedirà di seguire il Foggia in Sicilia, stadio Renzo Barbera, nel parco de La Favorita, a nord del capoluogo isolano. Probabilmente ci sarà il record di presenze per questa prima fase della stagione. Zamparini, padre padrone della società rosanero, ha deciso di fatto di regalare gli accessi all’impianto (le curve a 2 euro!) pur di vedere tornare il grande pubblico ad incitare la propria squadra del cuore. Regalare a tutti, certo, ma non ai tifosi del Foggia che, come in tutti gli stadi d’Italia, si annunciano anche qui come la più numerosa tifoseria ospite di questo campionato. Secondo le ultime informazioni saranno circa 250 i tifosi rossoneri al seguito, un numero davvero importante se di considera la distanza ed il giorno feriale del posticipo. Non siamo partiti solo da Pisa. Mi giungono notizie dai social di un manipolo di irriducibili imbarcati in aereo da Roma, Milano, Torino, Verona e Bologna. Qualcuno, più vicino, si è avventurato in auto o in treno. Molti già ieri da Foggia si erano messi in viaggio, altri li raggiungeranno in mattinata. Inutile ripetersi, il Foggia ha la più numerosa e appassionata tifoseria della serie cadetta, non lo dico per piaggeria ma lo dimostrano incontrovertibilmente i numeri.
Dalla formazione di Stroppa ci si aspetta progressi importanti e, sotto sotto, si coltiva un sogno che la partita di stasera disvelerà se potrà trasformarsi in qualcosa di concreto. All’andata, il 16 settembre, finì 1-1 (dopo le scoppole di Pescara ed Avellino ed il deludente pari interno con l’Entella), prima prova convincente del Foggia in quell’inizio di torneo. Al gol di Nicastro replicó a dieci minuti dal termine Murawski, a cui Fedele aveva lasciato colpevolmente libero un corridoio verso la porta di Guarna da fuori area. Sicuramente non è l’avversario più facile, ma il Foggia quest’anno in trasferta, a prescindere dal risultato, ha dimostrato di giocarsela alla pari contro tutte. Agazzi non sarà della partita, mentre rientrerà almeno in panchina Zambelli. Per il resto Stroppa si affiderà al solito undici. Forse non giocherà dall’inizio, ma mi aspetto molto da Mathieu Duhamel, possente attaccante francese che sabato scorso ci ha fatto vedere buone cose nei pochi minuti finali contro i biancoverdi di Novellino . Non c’è più tempo, l’aereo parte e a Palermo ci aspetta il sole. Per il Foggia formato serie B di quest’anno è l’ora di diventare grande. Stasera sapremo, come tutto il popolo rossonero si augura, se il nostro campionato guarderà finalmente ad orizzonti più lontani, solo fino a ieri irraggiungibili. Verrebbe da dire: “Verso l’infinito e oltre!” All’Argentario il sole splende alto nel cielo dell’estate italiana quando, scansando teli da mare ed ombrelloni, raggiungo il mio agognato metroquadro di battigia libera, con i miei giornali sottobraccio. E’ il 14 agosto del 2016, e ci siamo appena ripresi dalle “sberle di Pisa” e da quel maledetto coro urlato da Gattuso in quel sudicio pullman nerazzurro: “Ma il foggiano dov’è…?” Tutta (o quasi) l’Italia è in vacanza, almeno per due giorni. Apro la Gazzetta dello Sport per vedere se Donnarumma, a Foggia l’oggetto del desiderio, alla fine abbia firmato in quell’estenuante sfogliare della margherita, vengo sì e vengo no. Abbiamo giocato una buona partita a Verona in coppa, sembra che quest’anno la serie B sarà un’affare a due tra noi ed il Lecce. Il nuovo acquisto Tony Letizia pare aver già ingranato segnando al Bentegodi, ma è un laterale, ci manca un’attaccante per ammazzare il campionato e la punta salernitana sembra fare al caso nostro. Al Foggia il giornale dedica a mala pena una riga. Di acquisti e cessioni nemmeno a parlarne. Ma per fortuna c’è un modo alternativo per avere informazioni in tempo reale. Oggi stranamente c’è linea ed aggancio il wifi col cellulare. La mia estate finirà in quel preciso istante. “De Zerbi esonerato…” No, non è possibile! Nemmeno quattro settimane prima 6.000 tifosi festanti lo hanno abbracciato alla firma del suo rinnovo con tanto di uscita in campo tra Franco e Fedele Sannella che parevano due topi in mezzo al formaggio. Mi sento esattamente come nell’istante in cui Rivaldo indovinó quel millimetrico angolino alla destra di Marruocco ad una manciata di secondi dalla fine di Avellino-Foggia, dieci anni prima. Quasi peggio. Avevamo perso il nostro nuovo profeta. L’uomo che avrebbe dovuto farci dimenticare Zeman. Non un allenatore, ma un tifoso come e più di noi. Lo sfrenato esultare al secondo gol di Sarno, nella semifinale di ritorno contro il Lecce, era stata la sua spregiudicata dichiarazione d’amore a Foggia ed al Foggia. Come lui nessuno mai. La società lo manda via e nessuno sa il perché. Due ore dopo ecco il nome del sostituto, un altro ex, Giovanni Stroppa da Mulazzano. Sento già di detestarlo. Fosse venuto Josè Mourinho l’avrei odiato lo stesso. Torno a casa continuando a leggere notizie su notizie. E’ un tourbillon di emozioni e di indiscrezioni date per certe e poi smentite. Si dice abbia litigato con Di Bari. Si dice che i calciatori siano tutti dai Sannella per convincerli a ripensarci. In serata è dato per scontato il dietrofront, quando invece, pochi minuti dopo, è tutto finito. Via De Zerbi, dentro Stroppa. The End. Il martedì successivo c’è il raduno allo Zaccheria. Il Pullman aspetta che i calciatori salgano per la seconda parte del ritiro a Norcia. Sfilano delle facce scure in volto, tanti non avrebbero voluto nemmeno salirci su quel pullman, ma sono dei professionisti e nel calcio non c’è posto per i sentimentalismi. Di contro i tifosi rossoneri non hanno obblighi contrattuali, e sul quel pullman nessuno ci vuole salire (o quasi), tanto è ancora forte il legame della piazza con il tecnico che aveva risvegliato l’orgoglio rossonero. Comincia il campionato a porte chiuse. La squadra, collaudatissima, vince partite su partite e va in testa alla classifica. Le prime quattro gare interne sono vietate ai tifosi, nessuno dunque può saggiare gli umori della nostra gente. Ci sentiamo tutti come dopo la tragica scomparsa di Villenueve a Zolder nel 1982 (chi ha i capelli grigi sa bene a cosa mi riferisco). Gilles era il pilota di punta della Ferrari in F1, il pilota volante che teneva milioni di italiani incollati alla TV a palpitare durante tutti i Gran Premi. L’uomo che non conosceva la paura, che sfidava la morte ad ogni curva, ad ogni sorpasso. Ma la morte non si sfida, vince sempre lei. Non aveva vinto niente Gilles Villenueve, ma nessun pilota della rossa verrà mai amato come lui. Lo aveva sostituito l’insipido transalpino Patrick Tambay, l’usurpatore, l’indegno (a prescindere) e molti, io per primo, per mesi e mesi non seguirono più nè la Ferrari, tantomeno l’automobilismo. Però il Foggia non è la Formula Uno e nessuno si sogna nemmeno lontanamente di disertare lo stadio. Quando lo Zaccheria riapre i battenti, con l’Akragas (e con il Foggia appaiato al comando), l’accoglienza per Stroppa è freddina. Le cose peggiorano perché arriva una piccola crisi di risultati, e quando il Fondi viene a batterci in casa succede il finimondo. Tanti fischi allo stadio non si sentivano da anni. I calciatori e Stroppa, a testa bassa, vanno ad umiliarsi sotto le curve. Qualche calciatore piange. Sono impietosi quei fischi, immeritati. Avevano fatto una grande partita, i nostri ragazzi, passando in doppio vantaggio e sprecando l’impossibile. Un “certo” Calderini ci aveva punito nelle sole tre ripartenze fatte dai laziali. Stroppa non è mai entrato nelle grazie del tifo, in quella circostanza gli viene passato il conto del suo incolpevole subentro all’amatissimo De Zerbi, la sua panchina traballa paurosamente. Tuttavia quella sconfitta è la catarsi di Giovannino. Alla vigilia di una partita delicatissima a Melfi il tecnico lombardo, disperato, va in “all in” confidando nelle carte che ha in mano: i suoi calciatori. Come il più esperto pokerista di Texas Hold’em, annuncia che con quella squadra vincerà il campionato, tra lo stupore generale. E Stroppa quel campionato lo vincerà davvero, battendo tutti i record e rimandando all’unisono in riva all’Arno un “Il pisano dov’è…?” che tutta la città canterà ebbra di gioia. La tifoseria sembra aver ormai accettato la sua presenza sulla panchina. Arriveranno anche per lui i primi applausi, i primi cori dalle curve, uno striscione. Ma il fuoco cova sotto la cenere. Chi ha amato De Zerbi non si riconosce nel nuovo corso. Parte della tifoseria si spacca. Nascono gruppi e forum pro De Zerbi e pro Stroppa come “Dezerbilandia” o “Noi che stiamo con Stroppa”. Le donne sembrano le più accanite. Tra “vedove” di De Zerbi e “pasionarie” di Stroppa non se le mandano a dire. Volano gli stracci. La tragicommedia diventa farsa. Ad ogni sconfitta del Foggia dai social s’invoca a gran voce il ritorno di Roberto il “profeta”, ma ad ogni vittoria tornano alla carica gli “stroppiani“ rintuzzando ciberattacchi da destra e da sinistra. Anche i calciatori vengono associati ai due allenatori. Vacca, Sarno e Coletti sono tra i più fedeli “dezerbiani”, mentre Mazzeo, con Deli, guidano le truppe “stroppiane”. Solo capitan Agnelli, nell’immaginario collettivo, rimane fuori dalla diatriba. Ormai siamo al paradosso. Sembra quasi che molti tifino per due squadre diverse, qualcosa che a Foggia non si era mai visto. L’abbandono polemico di Anton Junior Vacca scatena quelli “che stanno con Stroppa”. Su facebook c’è quasi un’aggressione verbale contro uno dei protagonisti più significativi della promozione, mentre l’addio strappalacrime di Sarno accende i cuori dei fan di “dezerbilandia”, che imputano a Stroppa l’allontanamento dell’eroe di “There must be love”. Però il culmine della contesa si raggiunge il 3 dicembre scorso, quando Brignoli, estremo difensore del Beneventi di De Zerbi, raggiunge a tempo scaduto il Milan di Gattuso. Da una parte si festeggia la giusta vendetta (quasi divina) contro il trainer calabrese, dall’altra si taccia di alto tradimento quella parte di tifosi (la maggioranza) che hanno inneggiato al gol della rivale giallorossa.
Chi avesse avuto l’ardire e la pazienza di leggere questo racconto fino a questo punto, si chiederà dove si sia schierato chi scrive in questa “partita” essendo lo stesso notoriamente partigiano, dunque abituato a vedere il mondo diviso nettamente tra il bene ed il male, senza compromessi o transazioni. Nessuna risposta sarebbe più facile. Tra De Zerbi e Stroppa io scelgo il Foggia, e fino a quando il mister continuerà a stare su quella panchina sarà il “mio” allenatore. La passione per il Foggia sono una cosa, i sentimenti personali un’altra. De Zerbi rimane ad oggi il trainer apparso in Capitanata a cui ho voluto più bene, ma è una cosa tutta mia, che nulla dà e nulla toglie al mio sfrenato ed immortale amore per la maglia rossonera. Per questo mi sono provocatoriamente iscritto ad entrambi i gruppi facebook dedicati ai due allenatori. Nel mio piccolo ho voluto dare un segnale a tutti. Mai come adesso il Foggia è sotto attacco ed ha bisogno che i tifosi facciano quadrato intorno a squadra, tecnico e dirigenti. Le donne, signore e ragazzine, nell’ultimo lustro hanno riempito il nostro stadio, in casa come in trasferta, contribuendo non poco all’evoluzione in meglio della nostra tifoseria. Chiedo dunque a loro di dare l’esempio, di darlo ai loro “colleghi” maschi contrapposti sulle diverse sponde. Sotterrate l’ascia di guerra ed abbracciatevi sotto la vostra bandiera, la nostra bandiera rossonera. E ricordiamoci sempre che i cuori, quando battono insieme, fanno più rumore. “A pensare male si fa peccato ma spesso ci s’indovina!” è uno degli aforismi più noti di Giulio Andreotti. Così non è difficile pensare che dietro al sospetto e concentrato susseguirsi di avversità per il Foggia ci sia stata una regia occulta. Sgombriamo peró subito il campo da qualsiasi dubbio: non siamo complottisti. La vita è piena di coincidenze sospette, ma casuali. Non a caso si dice che le disgrazie non vengono mai sole. Di certo le difficoltà del Foggia hanno stuzzicato gli appetiti di chi ci vuole male, dentro e fuori dal campo. Il nostro indebolimento susseguente ai problemi giudiziari di Fedele Sannella era atteso ed auspicato dalle squadre invischiate come noi nella lotta per non retrocedere, per non dire di tanti “cugini” in terra pugliese (ogni riferimento al Bari è puramente voluto) che hanno riso sotto i baffi a leggere ed ascoltare la montagna di fango gettata addosso alla squadra prima ed alla città poi, difesa sì dal Sindaco Landella, ma non con il cipiglio e l’autorità che si sperava. Ad Avellino così, complice una fin troppo zelante prefettura foggiana, già si fregavano le mani convinti di farsi una allegra scampagnata nello Zaccheria vuoto, già terra di conquista di orde barbariche, con i tre punti di ricordo da portarsi in Irpinia come souvenir. Si è ben guardata infatti la società biancoverde dal collaborare con il sodalizio di viale Ofanto per alleviare la tensione, scongiurando una chiusura dello stadio che avrebbe poi fatto del male a tutti. Allo stesso tempo non ci sembra che le autorità avellinesi si siano minimamente preoccupate di valutare se ci fosse una pur minima possibilità di far arrivare allo Zaccheria i tifosi campani. Non ci meraviglieremmo nemmeno della speranza in una nostra esemplare sconfitta anche sul campo da parte di chi ha imposto quelle porte chiuse, diciamo così “a futura memoria”, perchè la punizione risultasse più significativa ed efficace. Peccato che nessuno avesse fatto i conti con i ragazzi di Stroppa che nelle difficoltà evidentemente ci sguazzano. In mezzo a tutte le note “disgrazie”, oltre alla sorte avversa, allo svantaggio immeritato patito da Assencio ed al rigore sbagliato, hanno tirato fuori un’altra prestazione maiuscola, tutta cuore e orgoglio, regalandoci una vittoria di platino alla faccia di chi ci vuole male.
È proprio vero, la farina del diavolo finisce sempre in crusca. Finalmente si gioca. Dopo fiumi di parole, lettere, suppliche e preghiere, Foggia-Avellino si giocherà senza tifosi che rimarranno ad incitare il Foggia fuori dallo stadio o a trepidare a casa davanti alla Tv. La città non ha accettato di buon grado questa misura restrittiva e di forme di protesta ne abbiamo lette e sentite tante (le più stravaganti sui social). Ricordiamo peró a tutti che protestare ed indignarsi è giusto ed è lecito purchè senza intemperanze e violenze di ogni genere. ILFOGGIA.COM ha scritto e ribadito che dobbiamo vincere non solo in campo ma anche nelle nostre strade. Ma c’è una sottile e originalissima protesta non-violenta che i nostri ragazzi possono esercitare in campo oggi pomeriggio e che farebbe rimanere con un palmo di naso “chi sappiamo noi”: lo sciopero della sconfitta allo Zaccheria!
VINCIAMO allora, e al diavolo chi ci vuole male! Ieri il Prefetto di Foggia, rispondendo ad un cittadino, ha trovato il modo di parlare alla città spiegando perché Foggia – Avellino si giocherà a porte chiuse. Una lunga lettera con toni concilianti ma fermi, sordo a qualsiasi supplica, lascia la città ed il futuro della nostra squadra in ostaggio di qualche decina di delinquenti comuni che, come una bomba ad orologeria e senza che i tifosi possano farci niente, se decidessero di reiterare la deprecabile guerriglia urbana condannerebbero lo Zaccheria ad una chiusura a tempo indeterminato. Il Prefetto (e l’Osservatorio prima di lui), con il paternalismo del maestro di scuola deamicisiano, ci infligge così (bontà sua) punizioni educative, impartisce lezioni di buona condotta. Peccato che non siamo a scuola e che siamo un Popolo e, correggetemi se sbaglio, da qualche parte c’è scritto che in democrazia il Popolo è Sovrano. A Foggia no. In questa brutta storia, per estrema beffa, siamo vittime due volte. La prima perché i danni delle guerriglie urbane sono a esclusivo danno della nostra comunità, la seconda perché quella stessa comunità è chiamata a pagarne il conto. Oggi come domani. Questo episodio è però solo la punta dell’iceberg di un lento declino e di un abbandono socio-politico contro il quale la nostra città è andata a scontrarsi negli ultimi trent’anni affondando lentamente, novella Titanic al largo di Terranova. Ci hanno tolto piano piano tutto, da ultimo la nostra stessa libertà, quella di poter assistere allo spettacolo per antonomasia della nostra gente: le partite del Foggia. Come togliere il carnevale ai Viareggini, il palio ai Senesi, la processione di Santa Rosalia ai Palermitani. Al di là delle norme e delle leggi, la Costituzione quella libertà ce la garantisce, in decine di migliaia sono morti nella guerra di resistenza per affermarla, non può condizionarla nessuno, al di là del fenomeno calcistico è un nostro inalienabile diritto (infatti sulla costituzionalità di alcune norme repressive nel calcio nutro seri dubbi, ma io non sono un giurista).
Ma tornando a noi, quello che mi preoccupa non è tanto lo stadio chiuso, ultima imposizione che subiamo supini, ma il lento declino della città di cui discorrevo. La prima volta che arrivai a Foggia era una caldissima sera di settembre del 1970. Avevo poco più di sei anni. Dai vetri della Giulia di mio padre scorsi una grandissima “R” rossa tra mille luci. L’avevo vista sulla maglia di Oscar Damiani nelle figurine panini. Mio padre mi spiegò che era la “Lanerossi ”, una fabbrica che dava da lavorare a centinaia di famiglie. Arrivato in città notai tante gru, cantieri edili dappertutto, grandi palazzine rivestite di ceramica e negozi e vetrine affollati. E’ quella la Foggia nella quale sono cresciuto, ho studiato, mi sono innamorato perdutamente della magica maglia rossonera. In serie A non c’era solo il Foggia, c’era tutta la nostra comunità. Erano gli anni dell’On. Vincenzo Russo (scuola Mattei all’Eni) e di Pellegrino Graziani Sindaco, entrambi DC, come la stragrande maggioranza degli elettori di allora. Probabilmente la politica a quel tempo (ma solo a quel tempo?) era clientelare, ma quei politici amavano la loro terra, profondamente, ed alla loro terra diedero tantissimo. Oltre alla Lanerossi c’era la Cartiera e lo Zuccherificio che facevano da traino all’economia locale, come l’agricoltura con il settore cerealicolo e l’indotto. E poi la costruzione della Biblioteca alla fine della tangenziale (altra intuizione urbanistica di allora), la più grande d’Italia si diceva (ma non era vero), dalle linee architettoniche sconosciute a Foggia e che in parte ricordavano addirittura il maestro svizzero Le Corbusier. Avevamo il secondo polo ferroviario d’Italia e l’autostrada adriatica ci raggiungeva finalmente collegandoci con il nord. Dall’aeroporto Gino Lisa si decollava per Roma e poi per Milano. Chi di noi allora non è andato almeno una volta a vederlo dall’interno credendo di visitare una specie di astronave? E’ di allora lo sviluppo del turismo religioso a San Giovanni Rotondo e le costruzioni di Pugnochiuso e Baia delle Zaghere, sulla costa di Mattinata, avevano presentato al mondo il Gargano che si affermava come una meta turistica tra le più frequentate in Italia ed in Europa, quando tedeschi, olandesi e francesi si accalcavano negli alberghi e nei campeggi da Manfredonia a Rodi. E poi c’erano gli eventi, gli spettacoli e il teatro Giordano, tappa fissa per le migliori compagnie nazionali. Vincenzo Torriani amava fare tappa a Foggia per il tratto meridionale del Giro d’Italia, con l’arrivo sul Viale della Stazione. In migliaia si accorreva per vedere Bitossi, Motta, Adorni, Mercks e il mitico Felice Gimondi. D’estate la movida era a Vieste, con tutti i suoi locali e il lussuosissimo Hotel Pizzomunno, dove Vittorio Salvetti portava il suo Festival Bar. Ma il nostro fiore all’occhiello era la grande Fiera Internazionale dell’Agricoltura, su via Bari. Era l’evento che aspettavamo da un anno all’altro. Seconda in Europa solo a quella omologa di Verona. Scandiva l’arrivo della primavera e preannunciava l’estate. Per noi ragazzini era l’immancabile visita all’acquario e al piccolo zoo. Tra animali d’allevamento provenienti da mezzo mondo, stand internazionali, bancarelle e macchine agricole all’avanguardia, l’attrazione era il padiglione tedesco. Nessuno andava via prima di aver mangiato il tradizionale panino con würstel e crauti ed un boccale di birra bavarese. In autunno si replicava con l’Ottobre Dauno, dedicato al turismo, al commercio ed all’artigianato. Un bagno di folla. Scippi, rapine e furti d’auto facevano ancora notizia, non c’era il bullismo e i “ragazzi di vita” che ci terrorizzavano al “triangolo”, i “caturz” (come li chiamavamo allora), ti rubavano il pallone ma, se ci facevi amicizia, finivi per giocarci insieme. Forse erano più simili a Franti del libro Cuore che a Ciro di Gomorra. E tante cose ancora, ricordi lontani. Arriverà finalmente anche l’Università, ma è il canto del cigno. La città s’impoverisce, gli storici padri politici sono stati da tempo spodestati, non sempre in maniera indolore, presto dimenticati. Senza più nessuno a Bari e a Roma a “proteggerci” poco alla volta ci tolgono tutto. La Fiera è l’ombra di quello che era, l’Areoporto chiude, la Lanerossi va via e la Fildaunia si arrende e licenzia, chiude anche la scuola di polizia, apprezzata in tutta la penisola, al teatro Umberto Giordano mancano i parametri antincendio e rimarrà abbandonato per anni riaprendo solo di recente, il polo ferroviario ce lo scippano con l’alta velocità e Puglia, ormai, vuol dire solo Salento. La crisi non risparmia ovviamente il Foggia Calcio che esce di scena per conoscere anni bui, sconfitte e fallimenti, nonostante l’immancabile supporto dei tifosi e l’impegno di tanti imprenditori locali per tenerlo a galla. La criminalità comune mette le mani sulla città. Chi subisce un furto non va nemmeno più a denunciarlo, i giovani vanno via, i negozi chiudono cannibalizzati dai centri commerciali. Arriva la sfiducia e la rassegnazione. Anche la squadra cittadina rischia di scomparire dal calcio nazionale. Ma sarà proprio il Foggia, da Pelusi ai fratelli Sannella, a suonare ancora una volta la carica alla città. Foggia è il Foggia, e prima con Padalino e dopo con De Zerbi, arriva il riscatto, la gente torna a gremire lo Zaccheria che trabocca d’entusiasmo fino all’apoteosi della promozione in serie B con Stroppa e i 50.000 in piazza a festeggiare. Da tutt’Italia la foggianità e l’orgoglio di essere foggiani si esprime con veri e propri esodi ad accompagnare la squadra in tutte le trasferte, Vercelli o Bari poco importa, a prescindere dai risultati e dalla classifica, nella speranza che quella serie B, il ritorno nel calcio che conta, riporti anche la città e il suo territorio ai fasti del passato. Il resto è cronaca d’attualità. Quell’esodo evidentemente spaventa. Le questure si mobilitano ma in trasferta tutto è tranquillo e anche a Bari, dove con pervicacia si prova a contenere con misure restrittive l’onda “anomala” della passione rossonera, non succede niente al di là di un petardo lanciato dal solito idiota su provocazione della tifoseria avversaria. Arrivano però i teppistelli da strada, delinquenti, non tifosi, che approfittano di partite con squadre particolarmente antagoniste per sfogare la loro imbecillità, ancora una volta provocata dai tifosi avversari (vedi proclami intimidatori pre-partita lanciati dagli ultras pescaresi) ed alla libertà condizionata imposta a tutti noi, che con quei teppisti non abbiamo niente da spartire, inibiti ad andare a seguire la NOSTRA squadra nel NOSTRO stadio. Ai tempi dell’Onorevole Russo e di Pellegrino Graziani, quando Foggia era la perla del Tavoliere, nessun Prefetto si sarebbe sognato di chiuderci lo stadio per episodi che riguardassero la delinquenza comune. Che questo episodio sia di monito a tutti perché non sempre il male vien per nuocere. Foggia non è solo calcio, come abbiamo visto, usciamo da questo luogo comune. Foggia è natura, storia, tradizione, arte, cultura e imprenditoria, ma per noi il Foggia è qualcosa di più di una squadra di calcio. Il Foggia siamo noi, è la nostra bandiera, il nostro passato e il nostro futuro, quello che è sfuggito e sfugge a Commissioni Ministeriali, Leghe e Prefetture. Foggia per noi è il sogno, il sogno di un avvenire migliore. Domani dimostreremo a tutti che se anche ci fanno abbassare la testa non ci piegheranno mai perché sappiamo cos’è la miseria, la povertà e il sacrificio. Sì, veniamo dalla terra e ne siamo fieri perché è la nostra ricchezza più grande. Alfonso Gatto, nella Spiaggia Dei Poveri scriveva che “…i poveri non partono verso le fortune, lasciano partire i vapori, mollano i cavi dell’ormeggio, poi voltano le spalle. Vivono finchè vivono, ma hanno memoria della vita. Lasciano cadere le risse, le feste, sanno qual è la gioia…”. Questi siamo noi. Domani non succederà niente. Dimostreremo ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che siamo una tifoseria matura, che a questo ennesimo sopruso, perché per me è tale la chiusura dello stadio a della gente che non ha fatto niente di male se non incitare i propri beniamini, risponderemo con fermezza e dignità e soprattutto senza alcuna violenza. Non saremo sugli spalti ma avremo tutti la maglia numero 5 di Denis Tonucci, la sua fierezza e il suo coraggio, e saremo nelle maglie di tutti i nostri valorosi calciatori che sento sapranno regalarci un’altra emozione. Domani Foggia e il Foggia vinceranno, in campo e per le nostre strade. |
Francesco BacchieriFrancesco Bacchieri, all’anagrafe Stellacci, laureato in architettura a Firenze, vive ed esercita la professione di architetto in Toscana ormai da 35 anni, da dove però non ha mai mancato di seguire i Satanelli in giro per l’Italia. Da oltre un anno, come Francesco da Prato, a fine partita commenta a caldo le prestazioni dei rossoneri nella rubrica "Io la vedo così... ". Archivi
Maggio 2020
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