Del resto la “partita del secolo” è stata anche merito suo. Se in quella semifinale tra Italia e Germania Ovest dei mondiali di Messico ’70, Gerd Muller non avesse segnato la sua doppietta, oggi la storia sarebbe diversa. Invece no, le pagine del calcio hanno regalato un racconto leggendario ai posteri di questo sport. Emozioni contrastanti, inimitabili e che riaffiorano senza freni anche nel giorno della sua morte. Gerd è scomparso questa mattina all’età di 75 anni, dopo una lunga malattia che lo ha attanagliato dal 2008.
Alzheimer. Un avversario ineluttabile e difficile da accettare. Durante un’intervista rilasciata alla Bild, la moglie Uschi lo ha raccontato così: “Sta sdraiato a letto quasi 24 ore al giorno. Raramente ha momenti di veglia, è così bello quando apre gli occhi, anche se solo per pochi minuti. Attraverso il battito di ciglia può rispondere di sì o di no alle domande che gli facciamo. A volte guardiamo insieme la televisione, anche se lui non recepisce”.
Una guerra interiore di una donna ancorata all’amore per il suo uomo. Ma negli ultimi tempi la situazione è peggiorata, fino alla notizia scioccante di questa mattina. Forse non è stato un fulmine a ciel sereno, vista la situazione clinica dell’attaccante tedesco, ma inevitabilmente ha toccato le corde emotive dell’intero mondo sportivo. Sono stati tanti i messaggi di cordoglio, dal suo Bayern Monaco al rivale di una notte d’estate di Città del Messico: Enrico Albertosi. Quella doppietta resta ancora oggi una ferita sanguinante nel costato di un’Italia intera.
Prima quel tocco diabolico al 94’ (primo tempo supplementare) con quel mancino sibillino, poi quel colpo di testa volante al 110’. Ancora oggi, gli improperi di Albertosi verso un Gianni Rivera avvinghiato nervosamente al palo della sua porta, riempiono i racconti di chi ha vissuto quella partita. Sempre lui, fino all’ultimo. La rabbia con la quale “l’Abatino” (colpevole sulla marcatura) ha raccolto la palla per portarla subito a centrocampo, è stato il fardello emotivo di una popolazione intera. Poi la storia si è dipinta di azzurro e scappiamo tutti come sia andata: 4-3 per l’Italia grazie proprio a Rivera e finale contro il Brasile dei “cinque numeri dieci”. Questa però è un’altra storia…
Gerd Müller è stato un ariete concettuale del calcio dell’epoca. E’ riuscito a sdoganare il principio di centravanti e ridimensionare anche quello di “grandezza”. Non servono necessariamente i centimetri per fare gol (lui era alto 1.76 m), ma certamente un’istinto felino nel deviare la palla oltre la linea della porta avversaria. Un’abilità rara, ma ben presente nei sui movimenti. Basti pensare ai risultati ottenuti col Bayern Monaco: quattro campionati tedeschi, altrettante coppe nazionali, tre Coppe Campioni (di fila) e una Coppa delle Coppe.
Il tutto condito da un Pallone d’oro (1970), due Scarpe d’oro (1972 e ’74) e dal record assoluto di marcature con la maglia dei bavaresi: 568 gol in 611 partite. Trofei e numeri ripetuti anche con la Nazionale: vittoria dell’Europeo 1972 e del mondiale di casa del 1974 accompagnati da 68 reti in 62 gare. Una media incredibile, ma che lo piazza solamente al secondo posto dei capocannonieri tedeschi: Miroslav Klose conduce con 71 marcature in 137 presenze.
Ma quello che ha lasciato Gerd Müller è qualcosa che va ben oltre i numeri e i record stabiliti. La sua eredità è una rivoluzione sportiva lunga 51 anni. Da quel lontano 17 giugno del 1970 fino ad oggi. Una vita intera incastonata nella memoria preziosa di una partita lunga un secolo.
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