La partita del secolo del Foggia Calcio

Il racconto di Domenico Carella

Cristallizzare il tempo. Prendere un pezzo di storia e trasformarlo in una fiaba. Impossessarsene per sempre, vestendo i panni di Davide dinanzi a Golia, stravolgendo il pronostico che vuole il ricco e potente favorito su più modesti e poco blasonati avversari. Questo ha fatto il Foggia di Don Oronzo Pugliese, battendo l’Inter “Euromondiale” di Helenio Herrera. Era il 31 gennaio del 1965. Sia chiaro, questa partita non l’ho vista per ovvie ragioni anagrafiche, ma aver avuto la fortuna di conoscere e parlare con numerosi protagonisti di quel match (alcuni dei quali considero amici sinceri), da Patino a Oltramari, passando per Micelli, Maioli, Moschioni e i compianti Nocera e Gambino, mi ha dato la possibilità di ricostruirla in molti suoi dettagli, al punto che mi sembra di averla vista più e più volte. Nel lavoro di ricostruzione giornalistica per il volume “Foggia-Inter 3-2, 31 gennaio 1965, l’impresa degli eroi di Pugliese” (Il Castello Edizioni, 2014, Foggia), di cui sono autore, ho ricostruito lungamente la trama della stessa, seguendo l’intreccio di interviste e fonti giornalistiche, di storie e di aneddoti balzati fuori dai racconti di chi l’ha giocata. Racconti soprattutto legati a quello che non si è visto in campo, ai retroscena, al punto che di quasi 260 pagine di quel volume, della partita in senso stretto se ne parla in meno di una decina. Perché, allora, ho scelto di parlare proprio di questa partita? Perché, a chiusura dell’anno del centenario, mi sento di poter dire che è senza ombra di dubbio la partita del secolo rossonero. Il perché? Per capirlo dovete immedesimarvi nella Foggia di inizio anni Sessanta. Quella era una città molto più piccola di quella che conosciamo oggi. Si lavorava duramente durante la settimana e uno degli svaghi preferiti dalla gente era il calcio. Tutti impazzivano per “il pallone”, sport che aveva iniziato a far capolino da queste parti nel lontano 1909 (a quell’epoca risalgono le prime fonti) ma che aveva visto nascere la prima squadra rappresentativa dell’intera città nel 1920. E fu subito amore. Non a caso, nella quarta di copertina del mio ultimo libro “Foggia 100, la categoria un dettaglio” (Edizioni Fogliodivia, 2020, Foggia), ho voluto riportare una frase che testimoniasse proprio l’amore che i foggiani nutrivano per il calcio. La scrisse Giosuè Poli, forte attaccante rossonero dal 1926 al 1928, che ricordando l’affetto dei tifosi foggiani in uno dei suoi libri pubblicati negli anni ’60 disse: “Quando si perdeva, anche la gente più equilibrata era capace di toglierti pure… il saluto, di tenerti il broncio duro e impenetrabile per giorni e giorni: cose proprio da innamorati! Ma nei giorni di vittoria, chi poteva frenare quella gente?”. E descriveva come la gente si caricasse sulle spalle i campioni, portandoli in trionfo per tutta la città fino alla sede sociale. Ecco, la gente impazziva per il calcio. Ed era così anche agli inizi degli anni Sessanta quando il Foggia fece un salto in Serie B con Costagliola allenatore, per poi retrocedere subito in C. La nostra storia inizia lì, all’indomani del ritorno in terza serie. Il presidente Armando Piccapane lasciò a Don Mimì Rosa Rosa, un grande imprenditore del legno nativo di Castellammare di Stabia ma foggiano di adozione. Il primo movimento ufficiale fu l’ingaggio del tecnico, il vulcanico Oronzo Pugliese. Un uomo che aveva fatto la gavetta, nato nella realtà contadina di Turi, nell’entroterra barese, ma determinato a raggiungere il suo sogno: diventare un “mago” del calcio. Già, perché in quegli anni in Italia imperversavano i maghi. Su tutti Helenio Herrera, diventato quasi invincibile con la sua Inter. Ma proprio mentre i nerazzurri cominciavano a vincere tutto in Serie A e in Europa, il Foggia, che mai era stato per più di qualche anno in Serie B (mai in A), si apprestava a scalare le categorie del calcio italiano. Il merito di spingere don Oronzo sulla panchina del Foggia se lo ascrive in parte Ciccio Patino, ala di quella squadra. Nella sua biografia, di cui mi ha onorato di essere autore (“Ciccio Patino, l’ala che fece volare il Foggia”, il Castello Edizioni), racconta di come Pugliese, presentatosi a Bari nel suo classico ed impeccabile doppio petto bianco, lo abbia lungamente corteggiato nella sua casa di via Gorizia. Era l’estate del 1961 e i rossoneri, dopo la retrocessione in C, provavano a ripartire per lottare per la promozione. Don Oronzo voleva a tutti i costi Patino nel suo undici titolare, ma Ciccio non voleva lasciare Foggia. La battuta fu propizia: mister, se mi vuole così tanto, venga ad allenare il Foggia. Detto, fatto. Caso? Fortuna? Chissà, chiamiamole coincidenze. La prima mossa di Pugliese fu confermare Nocera. Il bomber divideva l’attacco con Merlo, altro centravanti spesso adattato a mezzala di incursione. I giornali in quei giorni lo davano trasferito al Napoli per una bella cifra, ma don Oronzo mise il veto alla sua partenza. Aveva capito che dai suoi gol sarebbe passata la storia del Foggia. I numeri diedero ragione a Pugliese e arrivò a fine anno la promozione in B. Poi una stagione di adattamento tra i cadetti e la prima storica promozione in Serie A del 1964. Eccoci alle fondamenta della nostra storia. Il Foggia, squadra di una piccola città del Meridione, approdava per la prima volta nel calcio dei grandi. E lo faceva con uno stadio che era poco più di un campo sportivo. Il giorno della festa promozione non c’erano le curve. In quella che chiameremmo “Sud” c’erano pochi gradoni che proseguivano sulla scia di quelli della gradinata “Est”. In quella che chiameremo “Nord” c’era il prato, uno spazio con dell’erba dal quale si poteva assistere alla partita. Attorno al rettangolo di gioco c’era la pista di atletica. A proposito di terreno di gioco, dimenticatevi il verde smeraldo di oggi, perché non c’era un filo d’erba. Il campo era in sansa, il tritato del nocciolo di oliva, un terriccio “maledetto” dai calciatori, soprattutto quelli meno avvezzi al suo utilizzo, per il forte fastidio che provocava alla respirazione. L’odore acre prendeva alla gola. Prima dell’approdo in Serie A l’impianto venne comunque migliorato. Il maquillage dovuto alla promozione consegnò alla città due curve e una gradinata in tubi Innocenti e tavoloni di legno, che andarono a coprire la pista di atletica, facendola scomparire e dando la forma del catino infernale al piccolo Zaccheria. La gente era attaccata al campo, a due metri dai calciatori, e l’effetto del pubblico era moltiplicato rispetto agli altri stadi anche più importanti. Poi, c’erano i tavoloni di legno, sui quali, per fare baccano, la gente sbatteva rumorosamente i piedi, dando vita a un suono profondo, cupo, spettrale. Infernale! Cambiarono gli spalti, ma non il terreno di gioco, che rimase in sansa. Nel ritiro di Campobasso Pugliese allestì un Foggia di grande spessore che, a dispetto di etichette poco fedeli alla realtà, dava alla squadra una fisionomia tutt’altro che vicina al “catenaccio”. Molti erano gli elementi dedicati alla fase  in organico. Come terzino fluidificante c’era Micelli, un’ex ala sinistra d’attacco. A centrocampo Micheli dettava i tempi nei panni di regista, Maioli inventava calcio con le sue esili gambe (che gli valsero il soprannome di Gambadilegno), aiutato dalla corsa e dagli inserimenti di Lazzotti. Sulle ali si alternavano Patino, Oltramari e Favalli, tutti velocissimi e dotati di grande tecnica. Poi, al centro dell’attacco, troneggiava il re del gol: Vittorio Cosimo Nocera. Alto, possente, ma più bravo con i piedi che con la testa. La palla calciata dal bomber era quasi un’opera futurista, viaggiava sul terreno polveroso dello Zaccheria sollevando una nuvola scura di sansa che ne descriveva il movimento. E quando quella stessa nuvola diventava improvvisamente bianca, significava che la sfera aveva varcato la linea di porta in gesso. Stilettate, erano le sue, che mai si alzavano se non più di qualche centimetro dal suolo. In difesa il portiere Moschioni dirigeva tutti, con la coppia Rinaldi-Bettoni, coadiuvati da Valadè, che difficilmente faceva passare gli avversari. Eppure qualche piccola titubanza c’era. Già, perché era una bella squadra, è vero, ma pur sempre di illustri sconosciuti per l’epoca, con una scarsissima esperienza in Serie A. Tutti gli addetti ai lavori, infatti, probabilmente avevano visto nel Foggia la cenerentola del campionato. Ma la storia ci ha insegnato che spesso, quando il Foggia sembra avere i pronostici contro, riesce a dare qualcosa in più. Venne fuori un girone d’andata (Serie A 1964-1965) sontuoso, che portò il Foggia a centro classifica. All’inizio del girone di ritorno i rossoneri incontrarono la Fiorentina, in casa per poi attendere l’Inter, per il secondo turno interno. Una sfida epica. Da un lato la squadra del presidente Angelo Moratti e del “Mago” Herrera, fresca vincitrice della Coppa Intercontinentale (oggi Mondiale per Club), della Coppa Campioni (oggi Champions League) e futura vincitrice dello Scudetto, dall’altra il piccolo Foggia, per la prima volta approdato in Serie A, senza nomi di grido e un terreno di gioco senza un filo d’erba. Ecco, in momenti come questi, davanti a chi fa sport c’è sempre un bivio: o assecondi i pronostici, piegandoti a una storia già scritta o la riscrivi, quella stessa storia, colorandola con i tuoi sogni. Diventandone tu il protagonista. E quel Foggia decise di diventare immortale. Forte di una classifica che non metteva ansia, don Oronzo Pugliese cominciò ad pungolare sotto il punto di vista mediatico il “Mago” Herrera. Le cronache del tempo riportano di una polemica innescata per la gara di andata, nella quale, a dire di Pugliese, la panchina del Foggia venne messa in posizione opposta rispetto a quella dell’Inter (per intenderci sotto il settore opposto alla tribuna centrale). L’allenatore rossonero si districò tra giornalisti e giornali come avrebbe poi fatto un certo Josè Mourinho, ma 50 anni dopo. Tolse pressioni alla squadra, giustamente in apprensione per la sfida a campioni che avevano visto fino al giorno prima solo sulle figurine o sui giornali. E mise pressione all’Inter. In pratica, quella nerazzurra era una formazione di stelle, i campioni del mondo, quelli obbligati a vincere, mentre secondo Pugliese il Foggia invece non aveva niente da perdere, ma proprio per questo si sarebbe giocato la partita per vincere. Arguto. Un’arguzia che si trasformò poi trasformata in genio puro quando, il sabato, all’arrivo dell’Inter alla stazione di Foggia, si fece trovare proprio dove fermò il treno proveniente da Milano. Un caso, disse. Stava salutando Egizio Rubino, suo cognato (e futuro allenatore del Foggia) in procinto di partire con il suo Potenza per un ritiro. Voleva prendersi la scena, don Oronzo, e lo fece. Salutò cortesemente i rivali e accompagnò con la sua Giulia, come descrivono le cronache dei giornali del tempo, il gruppo dei giornalisti meneghini al seguito. Li accompagnò in albergo ed offrì l’aperitivo a tutti. Poi si spostarono allo Zaccheria, dove l’Inter stava per sostenere la rifinitura. Don Oronzo tenne banco in tribuna, esaltando le doti dei campioni del mondo, che intanto sgambettavano sotto i suoi occhi, ma non sminuendo quelle dei suoi ragazzi, che avrebbero comunque dato filo da torcere ai blasonati rivali. I giornali (anche quelli milanesi), il giorno dopo, non parlarono di Herrera, di tattica o di altro. Aprirono quasi tutti con titoli sullo show di Pugliese. Si era preso la scena. L’aveva presa sulla stampa e adesso doveva prendersela anche sul campo. Lucida determinazione, la sua, nel voler essere considerato “mago” alla stregua di Herrera. Magari il “mago del Sud”, il “mago dei poveri”, ma pur sempre un “mago”. Qui la leggenda porta anche a San Pio. Si narra, infatti, che proprio lui abbia annunciato all’Inter la sconfitta a Foggia e la vittoria dello Scudetto al termine del campionato (e in quel momento il Milan era primo con ampio margine). Lo fece al termine di una funzione alla quale assistette anche la squadra nerazzurra. Altre fonti, invece, sono meno precise e talvolta discordanti e non parlano dell’esistenza di questa premonizione. Ma la leggenda è così, porta con sé un alone di mistero e di incertezza. Quella tra il 30 e il 31 gennaio fu la classica notte prima degli esami e nessuno dormiva. Non dormiva Sandro Mazzola, stella dell’Inter, che scappò con un compagno di squadra dal ritiro di San Giovanni Rotondo per farsi confessare da Padre Pio (come ha raccontato lo stesso calciatore in un’intervista rilasciata in una delle mie trasmissioni nel 2014, il Diavolo e l’Acquasanta, prodotta da EmmErrEventi su Teledauna). Non dormiva il bomber Vittorio Cosimo Nocera, che sentiva, passeggiando nervosamente ai piedi del suo letto, che quel giorno avrebbero potuto battere i campioni del mondo. L’alba spense le ansie e mise tutti d’accordo: bisognava prepararsi e andare al campo. Lo stadio, come sempre, era pieno con ampio anticipo rispetto all’inizio della partita e già rumoreggiava. Le squadre negli spogliatoi si preparavano per la partita ma don Oronzo impedì ai suoi di fare riscaldamento in campo o fuori dallo spogliatoio. Si mise davanti alla porta e con quello sguardo che solo lui sapeva fare, con gli occhietti spalancati e determinati, fece saltare uno ad uno i bottoni della sua camicia. E caricò la squadra. Ognuno aveva un compito: un pezzo di campo da coprire e un avversario da marcare. E per Pugliese, ovviamente, l’avversario era poca cosa dinanzi a uno dei suoi ragazzi, che si chiamasse Suarez o Corso poco importava. Già perché, come ribadì in quell’occasione ai rossoneri, due gambe avevano loro e due gambe avevano i suoi ragazzi. Pari erano. L’ingresso in campo fu epico. Le cronache parlano di oltre 25.000 spettatori, una folla di indemoniati che vedendo spuntare i campioni del mondo e i rossoneri dagli spogliatoi, fecero tremare il terreno con un boato terrificante e con lo spettrale rumore dei piedi sbattuti sui tavoloni di legno. Lo scenario fece il resto. Il frastuono, il terreno spoglio, quasi marziano, di colore rossastro, così duro al contatto con i tacchetti ma al contempo capace di tremare come un molle budino sotto la spinta di 50.000 piedi. Come mi piace ripetere spesso, quello, signori, era l’inferno del calcio. E in quell’inferno i satanelli si sentivano a casa loro. Emozioni, paure, aspirazioni. Poi il fischio d’inizio. Il primo tempo fuggì via senza troppi sussulti. Il secondo, invece, diventò storia. Sotto quella che oggi chiameremmo Curva Sud, il Foggia sbloccò incredibilmente la partita: Maioli su punizione colse la traversa, la palla ritornò verso il dischetto del rigore e Lazzotti, ben appostato, la mise in rete. Uno a zero. Lo Zaccheria andò in visibilio: era passato in vantaggio contro i campioni del mondo. La gioia fu niente a confronto di quella che i tifosi provarono poco dopo. Verticalizzazione del solito Maioli, controllo di Nocera che entrò in area, mandò fuori giri Guarneri e Picchi (non due a caso) con un controllo orientato di tacco, e fulminò il portiere. Due a zero per il Foggia. Estasi allo Zaccheria. La gente si stropicciava gli occhi perché non credeva a quello che stava vedendo. Sembrava un sogno e per certi versi qualcuno temette di sognare per davvero. Soprattutto quando l’Inter, con un impeto d’orgoglio, agguantò il pareggio con due splendide reti di Peirò e Suarez. Due a due. L’atmosfera era cambiata. Dalla gioia si era passati alla paura. L’Inter poteva ribaltare la partita con un colpo di classe di uno dei suoi straordinari campioni. Ansia. Ma quella gente che popolava lo Zaccheria, quel Foggia di bravi e operosi sconosciuti e soprattutto quell’Inter di grandi campioni non avevano fatto i conti con Nocera. Vittorio quel giorno voleva prendersi la storia. Avvenne tutto in un lampo. Ennesima verticalizzazione di Maioli, palla al bomber, appostato sul limite dell’area di rigore spalle alla porta, controllo con finta su Guarneri e Picchi, rapida giravolta, tiro potente e preciso, palla nel sette. Gol. Tre a due. Foggia-Inter tre a due. Nocera rimase di pietra, come una statua, braccia al cielo e sorriso a trentadue denti. Tutti corsero ad abbracciarlo: compagni di squadra, tifosi, fotografi. Delirio. Allo Zaccheria era stata appena scritta la pagina più bella di una storia centenaria che ancora oggi appassiona. Allo Zaccheria 25.000 fortunati potevano dire “io c’ero”, nella partita simbolo del secolo del Foggia.

Di Domenico Carella