Inter – Foggia, quasi un racconto

Il racconto di Massimo G. Marsico

Domenica, 1 settembre 1991.
Il Foggia torna finalmente a calcare i palcoscenici della serie A. E lo fa nel teatro più suggestivo, lo stesso dov’era uscito di scena 13 anni prima: la “Scala del calcio” ovvero San Siro. Curiosamente di fronte c’è ancora l’Inter, l’ultima squadra affrontata in massima serie. Sembra un filo che si riannoda.
In tribuna stampa – accanto a colleghi che hanno fatto la storia del giornalismo sportivo italiano – ci sono anch’io, da pochi anni “pubblicista”. Collaboro con un paio di emittenti televisive locali (Teleradioerre e Telesveva), ma sono lì per l’organo ufficiale del club rossonero (“Il Foggia”) che curo insieme ad altri colleghi.
Per la prima volta sono chiamato a raccontare professionalmente le gesta della squadra della mia città in una sfida di serie A.
Quel che segue è il racconto di quella giornata.
***
La sveglia non aveva fatto in tempo a suonare.
Emozionato, avevo dormito poco. Ed ero già in piedi, da almeno mezzora. La disattivai prima che, squillando, potesse disturbare i miei genitori (con i quali ancora vivevo) che erano a letto. Mi ero già lavato ed avevo pure fatto colazione. Si fa per dire: avevo bevuto, semplicemente, un caffè. Avevo, dunque, ancora qualche minuto a disposizione. Scelsi, così, con cura cosa indossare. Presi la giacca, inevitabilmente: sportiva, più che elegante. Ed optai per una polo, al posto della camicia: mi sembrava più pratica e leggera. Del resto, anche a Milano si prevedeva bel tempo con una temperatura intorno ai 30 gradi. Agosto ci aveva appena lasciato, ma non ancora aveva fatto altrettanto il caldo, neppure al Nord.
Dalla finestra della mia stanza arrivavano le prime luci dell’alba. Mi affacciai. Su corso Giannone non camminava nessuno. Era fin troppo presto. Ed era domenica.
Guardai l’orologio. Ci siamo, pensai.
Puntualmente, suonò il citofono. “Scendo”, dissi, sapendo bene chi fosse.
Entrai in macchina e salutai i miei compagni di viaggio: “Buongiorno, ragazzi”. E ragazzi lo eravamo davvero. O comunque, così ci percepivamo a trent’anni.
“Sei pronto?” – mi chiese Pino, collega ed amico – “Oggi avremo una giornata intensa”.
“Fra quanto tempo c’è il volo?” domandai, fingendo di non ricordare l’orario del decollo.
“Un paio d’ore, più o meno”, rispose Federico che era alla guida.
“Tranquillo, facciamo in tempo”, mi rassicurò Ernesto che fungeva da “navigatore”.
Entrammo in autostrada. Destinazione: aeroporto Bari-Palese.
Provai ad assopirmi.
***
Il check-in fu veloce.
Ebbi anche il tempo di fare una telefonata. Frugai nelle tasche. Trovai alcuni gettoni e mi avvicinai alla cabina telefonica. Composi il numero.
“Sto per imbarcarmi, amore. Tutto bene. Ci sentiamo più tardi. Un bacio”.
Clic.
Sull’aereo, mi sedetti accanto al finestrino.
Mi ha sempre affascinato guardare le città dall’alto. Con il naso quasi appiccicato al vetro, mi trovo spesso a fantasticare e a farmi le domande più svariate. Ci avete fatto caso? Il paesaggio del treno va via veloce, in aereo invece è costante. Sembra quasi che il tempo rallenti.
Il volo (Bari – Milano) durò un’ora e mezza.
L’atterraggio fu delicato. Il pilota meritò l’applauso dei passeggeri.
***
Milano “rinasce ogni mattina, pulsa come un cuore. E’ da vivere, sognare, godere”.
Così, allora, veniva descritto il capoluogo lombardo in una nota pubblicità di un amaro. Erano ancora gli anni della “Milano da bere”, come recitava il fortunato claim. Presto, però, sarebbe cambiato tutto.
Uscimmo dall’aeroporto di Linate e chiamammo un taxi.
“Hotel Brun”, disse Pino indicando al tassista la nostra destinazione.
In auto suonava la hit del momento: Gypsy Woman (la da dee) della cantante americana Crystal Waters. Una melodia semplice, ripetitiva, ma accattivante su un ritmo rigorosamente in 4 tempi, evidenziato dalla batteria.
“Venite dalla Puglia? Siete tifosi o giornalisti?” chiese ad un certo punto il tassista, abbassando il volume della radio, dopo aver ascoltato qualche nostra battuta sull’attesissima (almeno da noi) sfida calcistica del pomeriggio: Inter – Foggia.
“Beh, … sia l’uno che l’altro” risposi sorridendo.
“Per la verità, loro sono giornalisti” – disse Ernesto, indicando me e Pino. “Noi due – proseguì guardando Federico – facciamo i fotografi. Lavoriamo per lo stesso giornale. In ogni caso, siamo tutti tifosi del Foggia”.
“Già, oggi è il primo settembre. Inizia il campionato…”, sembrò voler ricordare a se stesso il tassista.
“Che si dice, qui a Milano, dell’Inter?” domandò Pino.
“E’ andato via Trapattoni. E’ tornato alla Juve, come saprete. E il presidente Pellegrini ha scelto come successore Orrico, uno che ama il gioco a zona. E’ la moda del momento”, rispose proprio mentre entrammo con l’auto in zona San Siro, dov’era l’albergo.
“E’ la risposta nerazzurra ai cugini rossoneri che hanno vinto e dato spettacolo con Sacchi, passato ora alla guida della Nazionale”, dissi.
“L’ultimo scudetto, però, è finito sulle maglie della Sampdoria”, ricordò Federico.
“Comunque, Orrico alla Lucchese ha fatto bene” intervenne Pino.
“Ma l’Inter non è la Lucchese. Vedrete: farà la fine di Maifredi alla Juve, nella passata stagione…” profetizzò il tassista prima di farci scendere.
***
Molte squadre di calcio, compresa la Nazionale, sceglievano il lussuoso Grand Hotel Brun (un imponente edificio di 7 piani con oltre 300 camere) come… quartier generale, quando venivano a giocare a Milano. In particolare per la sua vicinanza allo stadio. Fu così anche per il Foggia. Entrammo nella hall, elegante con la sua atmosfera classica.
Su un tavolino, dinanzi ad un magnifico divano in pelle, c’erano dei quotidiani.
Tra i titoli principali mi colpì quello sul Khirgizistan, ennesimo paese che dichiarava la propria indipendenza dall’Unione Sovietica (che presto si sarebbe, anche formalmente, sciolta).
Proprio dall’URSS erano arrivati due dei rinforzi della squadra di Zdenek Zeman che aveva stravinto il campionato cadetto, mettendo in mostra il tridente delle meraviglie (Rambaudi-Baiano-Signori): Igor Shalimov, mezzala dello Spartak Mosca e Igor Kolyvanov, bomber della Dinamo Mosca. Entrambi facevano parte della Nazionale allenata da Bishovets, successore di Lobanovsky.
E sempre dall’Est, ma dalla Romania (altro Paese dove c’erano stati cambiamenti significativi), era giunto – a completare il trio di stranieri – Dan Petrescu, difensore che con la Steaua Bucarest di Iordanescu aveva vinto due anni prima la Coppa dei Campioni.
Provai a immaginare cosa potessero pensare di quanto stava succedendo nel mondo – ed in URSS, in particolare – i nuovi rossoneri, quando vidi scendere nella hall, per accoglierci, l’avvocato Mauro Finiguerra, amministratore delegato del club, che era stato avvisato del nostro arrivo.
Poco dopo ci raggiunse anche Sdengo (com’era affettuosamente chiamato Zeman dal patron, Pasquale Casillo), con un impeccabile abito grigio: quello della divisa ufficiale, con i due “satanelli” cuciti sul taschino della giacca. Al solito, immancabile al fianco del boemo, c’era Franco Altamura, dirigente accompagnatore, pronto ad accendergli l’ennesima sigaretta.
“Ci siamo, mister”, dissi. “E’ il suo debutto in serie A”.
“C’è sempre una prima volta…” rispose con la consueta flemma.
Ernesto e Federico scattarono alcune foto esclusive per il giornale. Eravamo gli unici ad avere accesso al ritiro del Foggia a poche ore dall’esordio in campionato.
Scambiammo qualche battuta. Ma i taccuini, come d’intesa, rimasero chiusi.
Bevemmo insieme un aperitivo, beneaugurante. Poi, però, ci accomodammo a tavola in sale separate. La squadra e lo staff tecnico volevano, com’era giusto, restare rigorosamente isolati. E così fu.
Mangiammo in maniera frugale e velocemente. E ci avviammo, con grande anticipo sull’ora del fischio d’inizio, allo stadio.
***
La “Scala del Calcio”.
Così è soprannominato l’imponente stadio di San Siro, tra i più belli al mondo, intitolato dal 1980 alla memoria di Giuseppe Meazza, gloria del calcio milanese. E’ emozionante già ammirarlo dall’esterno (ancor di più dopo il restyling), figurarsi da dentro.
Fissai lo sguardo sul manto erboso, più che sulla copertura che era stata realizzata da poco (in occasione di Italia ’90).
Su quel prato, pensai, si sono esibiti i più grandi calciatori di tutti i tempi.
Mi apparve, così, d’un tratto, Mazzola… E poi Rivera…
E poi Ernesto.
Lo vidi, a ridosso della linea che delimita il campo, accanto a Federico. Erano alla ricerca della posizione migliore per i loro scatti fotografici durante il match. Vi fu un cenno d’intesa, tra noi. “Va bene lì”, dissi ad alta voce come se potessero ascoltarmi.
I tifosi cominciarono ad affluire. Sugli spalti prevaleva il nerazzurro, ovviamente. Ma non erano gli unici colori. C’erano anche quelli rossoneri: dei foggiani che vivevano al Nord, ma anche di coloro (tanti, tantissimi) che erano saliti dalla Puglia appositamente per l’evento.
“Ciao, Massimooo!”, mi capitava, infatti, di sentire, ogni tanto. Anche da lontano.
“Ciao, ciao… Forza Foggia!”, rispondevo, talvolta senza neppure capire chi fosse l’interlocutore.
E c’era chi, riconoscendomi, intonava persino l’inno che avevo da poco composto (su testo dell’amico Lucio) per la squadra della mia città (Cuore Rossonero): “…un coro riempie il cielo…”. Pareva una festa. E, di fatto, lo era. A distanza di 13 anni, il Foggia era nuovamente nell’élite del calcio. E si apprestava a sfidare l’Inter, fresca vincitrice della Coppa Uefa.
***
Realizzai, dopo un po’, d’essere arrivato al posto assegnatomi in tribuna stampa. Pino ero al mio fianco. Salutammo calorosamente i tanti colleghi foggiani che si trovavano nelle vicinanze, mentre con quelli più distanti bastò un cenno con la mano.
“Che dici? Ce la faremo a tornare a Foggia imbattuti?” chiesi a Pino.
“Mah… I precedenti, qui a Milano con l’Inter, non sono favorevoli…”, rispose.
Girai la testa e vidi alle mie spalle, qualche fila sopra – nientepopodimeno che – Gianni Brera, uno tra i più grandi giornalisti italiani. Un autentico onomaturgo. Basti pensare a vocaboli come libero, centrocampista, goleador, contropiede, rifinitura, melina… Neologismi, tutti introdotti da lui che a 30 anni già dirigeva La Gazzetta dello Sport.
Ebbi un’intuizione. E mi avvicinai.
“Mi scusi, dottor Brera. Sono un cronista di Foggia. Curo, con altri colleghi, l’organo ufficiale del club. Le dispiacerebbe, a fine gara, scrivere due righe per noi, sulla nostra squadra?”, azzardai. “Certo, ci vediamo dopo”, rispose con l’immancabile pipa in bocca.
Fantastico! Non era di poco conto avere la firma di Gianni Brera sul nostro giornale.
Ci scambiammo il cinque, con Pino (quando gli raccontai com’erano andate le cose).
Beh, in un certo senso, era… uno scoop.
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Ad un tratto lo speaker dello stadio annunciò le formazioni.
“Foggia Calcio. Mancini, Petrescu, Codispoti; Picasso, Matrecano…”
“Chi? Matrecano?” chiesi, cercando conferma a Pino.
“Lo ha preferito a Napoli”, mi rispose, facendo riferimento a Zeman.
“Ma non sarà un azzardo?” commentai.
Salvatore Matrecano veniva dalla quarta serie, la C2. Aveva giocato, sino a pochi mesi prima, nella Turris. Era una delle tante scommesse (molte, alla fine, vinte) del ds Peppino Pavone, talent scout come pochi. Avrebbe dovuto vedersela, all’esordio al centro della difesa rossonera, con il centravanti Jurgen Klinsmann, uno dei 3 tedeschi campioni del mondo che avrebbe schierato l’Inter (gli altri erano Brehme e Mattheus).
Rimasi perplesso. E non fui il solo.
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Entrarono le squadre in campo, agli ordini del signor Cinciripini di Ascoli Piceno.
L’Inter con la consueta casacca nerazzurra, il Foggia in divisa da trasferta: maglia bianca con richiami rossoneri.
Cominciò la sfida, dinanzi ad oltre sessanta mila spettatori: uno spettacolo nello spettacolo.
L’Inter partì subito all’attacco, alla ricerca del gol nella porta sotto la Curva Nord, il cuore della tifoseria nerazzurra.
Vi fu un po’ di apprensione, inevitabilmente. La sensazione era che al primo errore, gli avversari non avrebbero perdonato.
Provai a stuzzicare Pino: “La serie A è un’altra cosa…”.
Ma rimase impassibile: “Normale. Il livello è più alto. Hai contato quanti campioni giocano nell’Inter?”.
Col passare del tempo, però, le cose migliorarono. E il Foggia iniziò a farsi vedere anche dalle parti di Zenga.
Pensai, ricordando Italia – Argentina di un anno prima: chi può essere il nostro… Caniggia?
Si andò, comunque, al riposo a reti inviolate.
“Sbarazzina, questa squadra” fu il commento di un collega milanese, in riferimento al Foggia.
Gli sorrisi, annuendo. Lo avrei rivisto, Paolo (così si chiamava il collega), qualche anno dopo a Telenova (emittente tra le più seguite in Lombardia), quando mi chiamarono alla conduzione di “Nova Stadio”, al fianco di Maurizio Mosca. Diventammo amici.
***
Il Foggia tornò in campo con un altro piglio, nella ripresa.
E dopo pochi minuti passò clamorosamente in vantaggio: segnò Baiano, dopo uno scambio con Rambaudi. Il bomber rossonero mise in rete di sinistro, quasi scivolando.
Io e Pino (e non solo) ci abbracciammo, increduli.
Il vantaggio, però, durò poco: neppure una decina di minuti.
Entrò Ciocci, fra i padroni di casa. E rimise le cose in parità.
Provò invano, l’Inter a ribaltare il risultato. Così come il Foggia a riportarsi in vantaggio.
Finì 1 a 1.
***
Al triplice fischio, tornai da Brera. E gli ricordai la promessa.
“Mi scrive, allora, due righe di commento?” domandai.
“Gliele detto. Provvederà lei a metterle su carta”.
“Ma posso apporre la sua firma su “Il Foggia”, il nostro giornale?”.
“Certo. L’autorizzo io. Mi fido: ha una faccia simpatica. Ecco il mio pensiero…”. E cominciai a prendere appunti.
***
Mi sedetti vicino al finestrino, anche per il volo di ritorno. Al mio fianco, Pino. Poco più avanti Ernesto e Federico.
Eravamo stanchi, ma contenti. Soprattutto per il risultato del Foggia.
Ci aspettavano, ora, giorni di lavoro intenso. Dovevamo metter su diverse pagine del giornale: avevamo da scrivere diversi articoli; bisognava, poi, scegliere le foto…
“I signori passeggeri sono invitati ad allacciarsi le cinture”, disse con un sorriso l’hostess di volo. “Vuoi che ti legga, cosa ha… scritto per noi Brera?” chiesi a Pino, mentre completavo l’operazione richiesta.
“Certamente, vai”.
Tirai fuori il taccuino dalla tasca destra della giacca.
“Gli amici de “Il Foggia” mi chiedono un giudizio. Io non mi sottraggo e dico: ho visto una buona squadra, bene impostata e sapientemente messa in campo da Zeman. I rossoneri non hanno lasciato nulla all’Inter che non ha trovato quasi mai varco. Prevedo un buon campionato per l’undici pugliese al quale faccio i migliori auguri”.
Ci guardammo negli occhi. Senza dirci nulla.
L’aereo aveva iniziato il decollo.
E mi vennero in mente le parole di Emily Dickinson: “la gioia è come il volo”.

Di Massimo G. Marsico