Alla fine ha vinto la più forte o forse no. L’ultimo atto del campionato di Serie C 2020-21 si è concluso con l’ennesima frustata di emozioni ed una sorpresa: l’Alessandria in Serie B. Un miracolo calcistico che ha sovvertito ogni tipo di risultato e condannato un Padova già idealmente promosso. Onore ai vincitori, ma anche ai vinti. Una constatazione più che logica in virtù dello strabiliante campionato dei biancorossi.
Ma al termine di questo marasma calcistico stagionale, la domanda sorge spontanea. Perché salgono quasi esclusivamente compagini del Centro-Nord dai playoff? Un interrogativo complesso, al quale è altrettanto difficile trovare delle risposte chiare. Dalla stagione 2014-15 (ritorno ad una Serie C unificata) le società meridionali affacciatesi nei cadetti sono state solo due: Cosenza (2017-18) e Trapani (2018-19).
Due meteore se dovessimo considerare l’arco temporale dei sette anni. Un dato che assume un valore diverso, rapportato alle squadre che hanno giocato in Serie B, nel corso della storia.
143 club distribuiti nelle 89 edizioni (girone unico) del campionato cadetto. La classifica va da un massimo di sessantadue partecipazioni ad un minimo naturalmente di una. Ma il dato che balza subito all’occhio, è la costante presenza delle squadre del Centro – Nord. Limitandosi ad una prima analisi e considerando le società che hanno avuto almeno cinque partecipazioni, il dato è eloquente: sessantadue del Centro – Nord e ventitré del Sud Italia. Un disequilibrio che ha evidenziato una disparità oggettiva, ma ben lontana dal vicino passato.
Le cause di tale divario sono da ricercare nel tempo e soprattutto nella storia del nostro Paese. Società, politica ed economia: le tre colonne portanti di qualsiasi stato costituito. Centri vitali collegati da un unico filo rosso: l’industrializzazione. Le pagine del nostro Bel Paese hanno raccontato le dinamiche di una crescita inversamente proporzionale. Dal grande ingranaggio economico dell’Italia Settentrionale, all’economia agraria Meridionale.
Due volti della stessa medaglia, ma che hanno avuto altrettanti decorsi storici ben differenti e non privi di difficoltà. Gli strascichi politico sociali (massimizzati nel ‘900) hanno continuato a mostrare segni evidenti anche nel nostro tempo. La grande migrazione dal Sud verso i nuclei industriali sembra una storia di ieri, ma ancora oggi mostra i riflessi incondizionati di uno sviluppo tardivo sulla tabella di marcia. Quella ricerca costante di un futuro migliore, è stato il vero sintomo più recente di una parte d’Italia travagliata.
Una carta carbone che ha delineato i contorni dello sport in generale, del calcio e dei suoi protagonisti. Non è un caso che il pallone italiano sia rappresentato principalmente da tre squadre: Juventus, Inter e Milan. Dominatrici indiscusse (meritatamente sia chiaro), ma al tempo stesso, effetti della realtà del Paese.
Oggi quei segni persistono nelle fughe delle nuove generazioni. Un moderno flusso migratorio mai interrotto, con specifiche assonanze a quello del passato. Un segnale costantemente sottovalutato e che ha contribuito alla ripetizione di una storia già conosciuta. Di conseguenza le difficoltà economico sociali hanno continuato ad avere un effetto caustico anche sulle realtà sportive odierne. I cui primi sintomi si possono ritrovare nella penuria e nell’incuria delle strutture delle società. Termometro di una qualsiasi realtà sportiva, ma soprattutto sociale.
Questo è il vero nodo da sciogliere. Una ricalibrazione delle esigenze di qualsiasi comunità. Dalla sua forma più estesa (Stato) a quella più ridotta (piccolo paese). Tutti protagonisti della stessa storia, ma inevitabilmente condizionati dalle problematiche che persistono.
Una conseguenza che ha evidenziato, nella maggior parte dei casi, una difficoltosa collaborazione tra le varie parti in causa. Da qui, l’esigenza dei club di rivedere il loro piano di azione e i confini della propria forza. Un malessere con un effetto cascata. Il ché ha coinvolto ogni categoria e schiantato tutta la sua forza sulla precarietà dei più fragili. La grande fuga dei capitali dal calcio meridionale, è sempre stato un tema ricorrente in tutta la sua storia.
Naturalmente le eccezioni ci sono state e continuano ad esserci. Scorrendo il dito sulla classifica stagionale, l’Avellino di Angelo Antonio D’Agostino o il Bari di Luigi De Laurentis rientrano sicuramente tra queste. Realtà forti con l’obiettivo di scalare posizioni. La cavalcata della Salernitana (arrivata in Serie A) di Claudio Lotito è un chiaro esempio. Ma del resto, il calcio non è una scienza esatta.
Il binomio pallone-soldi non ha mai offerto garanzia di riuscita. L’ultima stagione dei Galletti e l’eliminazione in semifinale dell’Avellino sono emblematiche. Incedenti di percorso certo, ma conferma ulteriore di una regola non scritta. Allo stesso tempo però, le grandi società hanno posto l’attenzione su una realtà critica: l’inevitabile ritardo di un sistema sofferente. L’assenza dei club meridionali, dalla promozione (playoff) in B, è una conseguenza di una debolezza corale e in contrapposizione alla forza di una singola società. Una realtà cinica, ma che si affida ancora una volta, alla speranza di una finale diversa…