La geo politica del conflitto israelo-palestinese

Scrivere del conflitto israelo-palestinese non è cosa semplice e nel momento in cui ho iniziato ad approfondire l’argomento non avevo la certezza di giungere alla stesura di questo articolo. La complessità della vicenda ormai incancrenitasi nel corso di decenni di guerre e contenziosi internazionali, il rischio di poter essere avvicinato all’una o all’altra parte indistintamente – anche solo per aver riportato opinioni interpretate come filo arabo o filo israeliane – la difficoltà di trovare interlocutori disponibili ad analizzare e a discutere pacatamente delle questioni irrisolte del conflitto, aumentavano il mio convincimento di non riuscire a terminare il lavoro iniziato.

Ho invece avuto la fortuna di poter raccogliere analisi e spunti di riflessione sicuramente interessanti e stimolanti per me e che con piacere condivido in questo e nel successivo articolo di approfondimento che dedico all’argomento.

Con il professor Maurizio Vernassa, ex docente di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici e Direttore del Master in Governance Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa e di Storia delle relazioni internazionali presso l’Accademia Navale di Livorno ed attualmente tra gli ispiratori del Circolo di Cultura Politica G.E. Modigliani di Livorno,  analizzeremo il conflitto in un’ottica storica e le attuali implicazioni geopolitiche nell’area mediorientale.

Professor Vernassa, come si inquadra storicamente la questione israelo-palestinese

Se volessimo ricostruire la vicenda storica della nascita di Israele dovremmo partire ben prima del 1948, data che sancisce la nascita dello Stato Ebraico, e dovremmo risalire ad un secolo fa, alla Conferenza di San Remo del 1921 a cui parteciparono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici della prima guerra mondiale, il primo ministro britannico David Lloyd George, il primo ministro francese Alexandre Millerand, il presidente del Consiglio italiano Francesco Saverio Nitti e l’ambasciatore giapponese Keishirō Matsui. In quella sede furono determinati i mandati che queste nazioni avrebbero assunto nei territori derivanti dalla spartizione dell’Impero ottomano nel Vicino Oriente, creando il Mandato Britannico della Palestina e dell’Iraq mentre alla Francia fu conferito il controllo della Siria, compreso l’attuale Libano.

La risoluzione di Sanremo adottò inoltre la Dichiarazione Balfour del 1917 secondo la quale qualora fosse stata costituita negli anni a venire una patria nazionale ebraica, questa sarebbe stata fondata ‘in Palestina’. Una sorta di promessa che rimase congelata fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.  Nel 1947 il Governo Britannico non essendo più in grado di mantenere l’ordine in Palestina, decise di rimettere il mandato alle Nazioni Unite che nello stesso anno adottarono il Piano per la spartizione della Palestina mandataria in due Stati (Risoluzione ONU 181): uno ebraico, comprendente il 56% del territorio, l’altro arabo, sulla parte restante, mentre Gerusalemme sarebbe stata corpus separatum sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite. Approvata a larga maggioranza, dopo lunghi negoziati preliminari, la risoluzione fu accettata dallo yishuv (nome che indicava il primo insediamento ebraico in Palestina n.d.r.) e respinta dalla comunità araba. Questa situazione determinò lo scoppio della prima guerra Israelo-palestinese (Guerra di Indipendenza) che si concluse in modo assolutamente imprevedibile con la vittoria, sul campo, degli Ebrei. Nessuno, neanche gli stessi ebrei avrebbero immaginato che il conflitto avrebbe avuto un esito per loro positivo, poiché da una parte avevamo una massa di uomini e donne, i coloni ebrei, impreparati alla guerra, ad eccezione di un esiguo numero di soggetti che erano stati arruolati nella brigata ebraica dell’esercito britannico impiegata nella campagna d’Europa durante la seconda guerra mondiale, e dall’altra l’allora compattissimo mondo arabo. La differenza fu che gli Ebrei combatterono per la propria vita, non esistevano alternative alla costituzione dello Stato ebraico, invece gli eserciti arabi non risultarono sufficientemente motivati a battersi per un obiettivo, il mantenimento della Palestina, che interessava la leadership araba e non certo le masse o l’esercito. Da allora un secolo di crescente tensione, fino alla nuova crisi armata di questi giorni.

Come mai proprio ora questa nuova escalation militare del conflitto?

L’esame di quello che sta accadendo in Palestina in questi giorni, a mio parere, va inquadrato su un duplice livello.

Il primo ci racconta la quotidianità degli avvenimenti. Sappiamo che l’occasio per gli scontri armati di questi giorni è stato offerto dalle operazioni di sgombero di alcune famiglie palestinesi dalle abitazioni di Sheikh Jarrah, piccolo quartiere a ridosso di Gerusalemme Est, avviate dagli Israeliani, sfratto peraltro bloccato dalla Corte di Giustizia Israeliana che ne ha riconosciuto il diritto ma non l’esecuzione. Sono seguiti i primi scontri sulla Spianata delle Moschee, e poco dopo, come ritorsione, il lancio di razzi da parte palestinese verso Israele con i conseguenti bombardamenti a Gaza e Cisgiordania. La situazione era talmente esplosiva che sarebbe bastato un qualsiasi altro elemento di tensione tra le parti a far degenerare la crisi e riportarla sul piano dello scontro armato.

Un aspetto che a mio avviso va sottolineato e che non emerge a sufficienza nel racconto giornalistico dei media nazionali ed internazionali, è che l’obiettivo dello scontro non è l’acquisizione della striscia di Gaza da parte di Israele. Israele non vuole ottenere il controllo di Gaza, altrimenti non l’avrebbe ceduta all’Egitto che peraltro, a sua volta, la rifiutò, governandola con una amministrazione militare fino al 1967, senza mai averla annessa. Proprio per questo si arrivò agli accordi che prevedevano la formazione di una autonomia palestinese in Cisgiordania e a Gaza e nel 2005 si arrivò al Piano di Disimpegno Unilaterale israeliano che prevedeva l’evacuazione dei coloni ebrei dalla Striscia e lo smantellamento degli insediamenti che vi erano stati costruiti.

Interessante è l’aspetto che riguarda i cambiamenti nella conduzione delle operazioni belliche, nel senso che il confronto militare puro tra le due parti è ampiamente a favore di Israele, che da questo punto di vista non ha competitor. Certamente la parte palestinese ha messo in campo una capacità di fuoco come mai in passato, per precisione e gittata dei missili utilizzati. Il confronto armato è comunque asimmetrico a favore di Israele che ricordiamo essere tra gli Stati al mondo che spende maggiormente, in proporzione al PIL, in attrezzature militari e sistemi di difesa e paradossalmente questa evidente asimmetria genera al Governo ebraico notevoli problemi a livello internazionale. Oggi il dibattito interno ad Israele, (l’intervista è avvenuta prima del cessate il fuoco dichiarato tra le parti venerdì 21 maggio N.d.r.) è tra chi vorrebbe il cessate il fuoco assecondando le pressioni internazionali che, seppur in ritardo, si sono adoperate in tal senso e la destra di Netanyahu che ha più volte dichiarato di voler spingere sull’acceleratore dell’intervento armato. Infatti ogni volta che si ha una radicalizzazione dello scontro con i palestinesi, le destre e Netanyahu in particolare, ne traggono vantaggio in termini politici e di consenso interno.

Ci parlava prima di un duplice livello di analisi, può illustrarci meglio a cosa si riferiva?

Anche la crisi Israelo-palestinese, a mio avviso, è da inquadrare nell’ambito di una risistemazione geopolitica dell’area mediorientale che dal Centro Asia, ex repubbliche sovietiche, arriva fino alla costa nordafricana del Mediterraneo, Marocco escluso.

Soffermandoci agli ultimi vent’anni, non è un caso che in queste zone si siano combattute molte guerre, penso alla crisi irachena ai difficili rapporti con l’Iran rivoluzionario, alla situazione del Libano, al recente conflitto siriano. Più che guerre del luogo, quelle che sono state combattute in questi Paesi, possono essere considerate delle proxy wars cioè guerre per procura, nelle quali i veri soggetti protagonisti sono altri rispetto ai contendenti sul campo. 

Esistono due tipologie di players che hanno agito e continuano ad operare in questi contesti: le medie potenze regionali, la cui importanza è in realtà in crescita in questa area mediorientale allargata, e le grandi potenze mondiali. Tra le prime, un ruolo importante lo sta svolgendo in questi anni la Turchia di Erdogan, che su Gaza, ad esempio, ha investito molto, l’Iran e l’Arabia Saudita che sono indubbiamente tra i protagonisti degli accadimenti di questi anni. Questi Stati perseguono obiettivi diretti: il consolidamento del proprio ruolo economico e politico nell’area, e il tentativo di accreditarsi presso le cancellerie internazionali come interlocutori credibili per la gestione delle crisi in quei territori.

I players mondiali, Cina, Stati Uniti e Russia, giocano invece una partita a medio e lungo termine. Il loro obiettivo è delineare nuovi scenari internazionali di maggiore convenienza economica e politica. Il recentissimo blocco del Canale di Suez ha riproposto una serie di vecchi progetti, peraltro mai abbandonati, di creare vie alternative per il passaggio delle navi e delle merci. Realizzare una percorribilità tra Mediterraneo e Golfo Persico è uno degli argomenti che sono tornati in primo piano in questi ultimi mesi e non è un caso che siano apparsi articoli e studi su riviste internazionali di geopolitica.

Interessante è l’articolo di poche settimane fa (16 maggio 2021) apparso sulla rivista Euro-Synergies a firma di Valery Kulikov, in realtà il nome potrebbe anche celare altre identità, intitolato “Alternative iranienne au canal de Suez” in cui è analizzata la fattibilità di questo nuova rotta marittima di 750 km tra il Caspio e il Golfo Persico che attraverserebbe in gran parte il territorio iraniano. La Russia di Putin, nonostante le notevoli difficoltà economiche, investe molto nel settore delle analisi geopolitiche e sono numerosi gli Istituti di Studi Strategici che finanzia direttamente. Ma non è solo la Russia a muoversi in questa direzione. Ricordiamo l’impegno cinese a realizzare le nuove direttrici su cui veicolerà i futuri flussi di merci verso l’occidente: “La via della seta” e la “Via della seta marittima del XXI secolo” due progetti ormai in piena fase di realizzazione con investimenti ingenti da parte di Pechino. Altrettanto decisivo appare il piano di percorribilità del Mare di Bering per consentire alle merci cinesi una nuova via di collegamento con Europa e Stati Uniti che potrebbero essere raggiunti ancora più velocemente grazie alla creazione di un collegamento ferroviario tra Pechino e il Continente americano con la costruzione di un Ponte tra la penisola dei Ciukci in Siberia (Russia) e la penisola di Seward in Alaska (USA). Non si tratta di progetti fantasiosi o futuribili, ma di chiare visioni strategiche dello sviluppo del mondo che sono già in atto sotto i nostri occhi.

Abbiamo parlato dei progetti di Cina e Russia. Ne esistono di analoghi anche sul versante statunitense?

Anche Israele e gli Stati Uniti, che sono e rimangono il principale partner politico ed economico dello Stato ebraico, hanno in progetto la realizzazione del Canale Ben Gurion che dal Golfo di Aqaba arriva al Mediterraneo. I progetti che ho citato spiegano l’importanza strategica del controllo dell’area mediorientale e solo conoscendo queste dinamiche si possono capire i tanti conflitti che si sono sviluppati in questi territori.

Quindi anche il conflitto Israelo-palestinese trova le sue motivazioni in questi scenari internazionali che ci ha delineato?

Come ho detto prima esistono due livelli diversi di analisi: quello giocato dalla politica “locale” che opera nella quotidianità del conflitto con la necessità di aumentare il consenso interno, discorso valido sia per Netanyahu che per Hamas, e quello dei players mondiali che perseguono obiettivi economici e politici di più ampio respiro. Ovviamente i due livelli si muovono su piani paralleli ma gli obiettivi che perseguono, almeno nelle intenzioni delle grandi potenze, sono convergenti. Ad esempio in questa ultima crisi israelo-palestinese nessuna tra le grandi potenze ha assunto una posizione immediata sul conflitto, era come se avessero avuto tutti la necessita di attendere lo sviluppo della situazione per capire come trarne vantaggio. Nel mondo democratico statunitense il primo ad esprimersi sugli attacchi missilistici in atto e a richiedere un intervento dell’ONU per giungere ad un cessate il fuoco tra le parti, è stato Sanders e non Biden, a testimonianza del fatto che, come affermano alcuni commentatori, l’Amministrazione americana e in particolare i democratici sembrano essere più interessati alle prossime elezioni presidenziali che all’oggi. La Cina è sicuramente la potenza che si sta muovendo meglio in questi contesti e dimostra di avere un quadro completo di controllo su ciò che avverrà nel mondo nei prossimi 20 anni. Pochi organi di stampa italiani ed internazionali hanno riportato con la notizia della richiesta cinese di ospitare a Pechino gli incontri tra israeliani e palestinesi per il cessate il fuoco, visti i primi insuccessi registrati all’ONU. E’ la stessa posizione assunta recentemente da Pechino anche per la crisi in Myanmar ed è il tentativo che la leadership cinese insegue da tempo di accreditarsi come potenza in grado di gestire le crisi politiche internazionali, ruolo impensabile fino a qualche anno fa e storicamente gestito dalle cancellerie occidentali piuttosto che da quelle orientali.

Quali prospettive di soluzione intravede per l’attuale conflitto?

Anche se si riuscisse a trovare un accordo tra le parti, la scintilla su cui innescare nuove tensioni è sempre dietro l’angolo. La visione di “due popoli, due Stati con una capitale condivisa” non è stata in grado di assicurare alcuna pace duratura in Palestina e purtroppo ciclicamente gli scontri sono destinarsi a ripresentarsi fintanto che non si saranno definiti i rapporti di forza nell’intero Medio Oriente.