Continua a fare ancora poco rumore il premuroso lavoro delle Usca, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale. “Un valoroso esercito di 138 giovani medici” come li ha definiti Vito Piazzolla, Direttore generale dell’Asl di Foggia, “che stanno svolgendo un ruolo di grande importanza nella rete di contrasto alla pandemia”.
Eppure, il loro impegno è quello meno visibile o raccontato.
Il distanziamento sociale è ormai la normalità. Gli abbracci sono demonizzati e stringere una mano è considerato un gesto pericoloso. Mentre il mondo rallenta sotto il peso di una pandemia, medici e infermieri non smettono di combattere una guerra frenetica e senza regole, che non accenna ad indebolirsi.
In pochi, però, descrivono l’esperienza professionale, e fortemente umana, che stanno sperimentando i giovani medici, perlopiù neo laureati, strappati dalla serenità di una scrivania e scaraventati direttamente sul campo. Coperti da tute bianche, mascherine e guantie degli ospedali, impegnati ad offrire le loro competenze a tutti quei pazienti Covid che, non necessitando di un ricovero, affrontano i sintomi più o meno lievi da casa.
Sette giorni su sette, un turno che quasi mai dura meno di dodici ore, e la paura dell’ignoto quando tutto è cominciato. Non si trattava soltanto di monitorare il paziente attraverso lo schermo di un telefono. Le visite a domicilio, quelle che neanche più i medici di base hanno la possibilità di fare, sono diventate presto il loro compito primario. Poi l’importanza dei drive through, e i tamponi in casa di pazienti già in isolamento: tante piccole accortezze che evitano assembramenti nei pronto soccorso. E nonostante la scarsa disponibilità di personale, in questa seconda fase della pandemia si occupano anche di portare avanti la massiccia campagna vaccinale, che sembra rassicurare alcuni e incutere timore in altri.
Tuttavia, oltre alla sollecitudine quasi affettuosa, le Usca si stanno occupando di un aspetto sempre troppo trascurato in questo periodo, che è quello umano. Perché quando il tampone da esito positivo, si avverte inevitabilmente un senso di solitudine, si perde la possibilità di chiedere aiuto e di avere qualcuno vicino nel momento in cui si è più fragili. Le Usca, in qualche modo, hanno il tempo, seppur breve, di ricordare che esiste anche altro oltre a una serie di numeri che quotidianamente affollano le statistiche. Esiste ancora il conforto, il contatto, l’importanza di supportare il paziente soprattutto quando, con sintomi più gravi, è costretto a salutare coniuge e figli per essere trasferito in un reparto Covid.
Così, se soltanto avessimo una visione più ampia delle cose, riusciremmo a scorgere, anche in questo momento, un atto di gentilezza, di incantevole umanità che sembra quasi meravigliarci per quanto è diventato fuori dall’ordinario.
E se le mascherine impediscono di scorgere un viso, gli occhi possono ancora assottigliarsi in un sorriso di ringraziamento.