Se c’è un portiere che ha legato indissolubilmente il suo destino a quello del Foggia è sicuramente Francesco Mancini, morto prematuramente e tragicamente proprio il 30 marzo di nove anni fa. Insieme a Moschioni, Trentini e Memo, ma in epoche diverse, ha avuto l’onore e l’onere di difendere i pali della porta rossonera nella massima serie (nessuno ha giocato più partite di lui in serie A con la maglia del Foggia), e lo ha fatto impersonando quel ruolo in maniera del tutto innovativa, incoraggiato in questo dall’allenatore che lo ha scoperto e lanciato negli stadi italiani che contano, quello stesso Zdenek Zeman che, fino alla fine, lo volle con sè anche a fine carriera come allenatore dei portieri. Quando lo vidi giocare la prima volta (esordì in serie B con una sconfitta a Como) io, insieme a tanti (forse tutti) tifosi rossoneri, rimasi basito. Abituati a portieri che presidiavano rigorosamente la porta e l’area piccola, dalle prime rimanemmo agghiacciati da quel suo avanzare nel campo, quasi a voler appoggiare le azioni di rimessa dei ragazzacci di Zeman. Irriguardoso, quasi spavaldo nell’affrontare in uscita le folate degli attaccanti avversari a cui spesso il gioco spregiudicato del boemo apriva immense e aperte praterie, non ci volle tanto a capire che quel ruolo di “portiere volante” libero aggiunto e ultimo baluardo difensivo, poteva interpretarlo solo un calciatore che non fosse solo portiere, ma che avesse doti non comuni di visione del gioco, velocità e anticipo sull’avversario, oltre che di agilità da felino, anzi da vera e propria lince (per reattività e furbizia) d’area di rigore. E già, perchè il “Mancio” i gol gli evitava più sul nascere, ai limiti dei sedici metri, che fra i pali, dove comunque ha sempre dimostrato grandissima prontezza di riflessi e senso della posizione. Per quel suo modo di uscire spesso fuori dai pali lo chiamavano “l’Higuita italiano”, un paragone che peró gli stava sicuramente stretto. Rispetto al numero uno colombiano era molto più rigoroso e attento in porta e il suo giocare spesso fuori area non era frutto di una sua “mattana”, come il collega sudamericano, ma piuttosto il risultato di una tattica di gioco studiata a tavolino e per la quale era addirittura “disciplinato” secondo i dettami dell’allenatore ceko.
Tante le sue parate decisive, inutile ricordarne una in particolare, basti sapere che si contrappose a calciatori di fama immensa, da Ven Basten a Baggio, da Mattäus a Vialli, solo per ricordarnne alcuni, ai quali chiuse spesso la via del gol consentendo al Foggia di misurarsi alla pari contro tutti gli squadroni metropolitani.
Nel privato era riservato, molto dedicato alla famiglia anche se molto vicino ai compagni e al suo hobby preferito: la musica reggae di quel Bob Marley del quale ricordava gli occhi curiosi, scintillanti, aperti alla vita.
La parte più fulgida della sua carriera rimane legata all’epopea di Zeman e Casillo. Visse quegli albori e poi il lento declino. Lasció a malincuore il Foggia per approdare in formazioni non proprio “simpatiche” ai tifosi rossoneri come la Lazio, il Bari, il Napoli e la Salernitana, ma nessuno a Foggia gliel’ha mai rimproverato. Tornó con Zeman e Casillo come allenatore dei portieri nel 2010 in una stagione non proprio fortunatissima, per poi seguire il suo mentore a Pescara in un’altra annata miracolosa. E proprio a Pescara trovó la morte così, improvvisamente, nel fiore degli anni, lasciando nello sgomento la famiglia, gli amici, i compagni di lavoro e rattristando i cuori di quei tifosi che con lui avevano sognato e praticato un calcio diverso, fatto di fatica e sudore, ma anche e soprattutto di tattica e di tecnica sopraffina finalizzata ad un gioco visto come divertimento puro, trasparente e cristallino, proprio come era Franco Mancini.
A Foggia oggi il suo nome campeggia sulla curva Nord, dedicata a lui, di fronte alla curva, la Sud, che ricorda un’altro protagonista del calcio foggiano, quel Piero La Salandra che con Mancini e tantissimi altri protagonisti del passato e del presente, hanno dipinto a tinte forti un quadro indimenticabile di una storia rossonera lunga cent’anni.